– La racconta anche a me la storia di Sisinnio Deidda? – Morto è.
– Anche Luciano, suo marito, è morto.
– A luciano l’hanno morto.
Ci sono ricascato. Se non altro per il precedente Verità processuale – romanzo d’esordio di Pinna Parpaglia – avevo un alibi: mi era stato caldamente consigliato da un amico, non potevo sottrarmi. Stavolta invece sono io che l’ho voluto. Che me la sono andata a cercare. Quindi, niente scuse, nessun alibi. Torno a ribadire: cerco, per quanto possibile, di tenermi lontano da gialli, thriller, legal thriller eccetera. Perché li trovo fondamentalmente ricattatori, frutto di un algoritmo narrativo da cui preferisco non farmi intrappolare. Un algoritmo prevedibile nella sua determinazione all’imprevedibilità, quindi nella maggior parte dei casi frustrante proprio per come definisce i confini del leggere come avventura. Ovvio che quando poi inizio a leggerne uno, rimango invischiato, soggiogato, rapito. Certo: quando e se sono ben scritti. E Paolo Pinna Parpaglia è uno che scrive bene, sul filo di un’ironia assieme umana e spietata, con le radici affondate nel retaggio popolare sardo e la capacità di mestare nel torbido della memoria rispettandone la tenerezza, l’insidiosa vulnerabilità. Quello che sembra un filo narrativo diventano due, poi tre. Il presente si innesta nel passato, diventa affresco lucido e distorto. I personaggi (in parte – la carnale protagonista, l’evasivo Quirico – ripescati da Verità processuale) mantengono quell’aria vagamente macchiettistica che di colpo sa diventare cruda e persino crudele. Le trecentosessanta pagine scorrono agili, col particolare che le ultime cento si leggono in apnea. Per tutto ciò, non manca nulla. Proprio nulla. Conclusioni: dopo il primo romanzo di Pinna Parpaglia pensavo che fosse già tranquillamente al livello dei Vichi e dei Malvaldi. Questo Marghine testimonia una crescita sensibile. Traete voi le conclusioni.
Stefano Solventi