«Una vita interessante», la definisce lei nell’ultimo capitolo, rimandando alla maledizione ebraica che dice «Possa tu vivere tempi interessanti!».
Questa è la biografia inventata di Sarah Nour el-din (a prima vista un altera ego impressionante dell’autore: matematica, ingegnere, artista e scrittrice) nata a Beirut, in Libano, e trasferitasi negli Stati Uniti per sfuggire alla guerra e (spoiling, tappatevi le orecchie) al trauma di uno stupro di gruppo. Chiamata Sarah dal nonno paterno come la grande Sarah Bernhardt, la divina: “ancora oggi, ogni volta che mi sento depressa, mi tingo i capelli di rosso, come Sarah“.
Sarah prova a vivere e a scrivere individualmente (e chi di noi non comincerebbe così la propria biografia!?), ma è sempre un tentativo frustrato, perché é nelle relazioni che si colloca e trova la propria immagine. Relazioni per sempre come quelle con la famiglia (se tu prendessi tutti noi otto e scandagliassi i nostri cuori, ti imbatteresti in una solitudine talmente avvolgente e soverchiante da spaventare) , relazioni disfunzionali come quella con la madre che, divorziata dal padre quando Sarah è bambina, lascia tutti e scappa a New York, relazioni totali come quelle con i due mariti, e relazioni masochiste come quella con l’ultimo fidanzato, David.
La vera originalità di questo romanzo forse non è nelle vite che racconta, ma nel tentativo di raccontarle, quello che vuole dire in fondo il sotto titolo: “Un romanzo in capitoli primi”.
Il libro a ogni capitolo ricomincia da capo. “Avevo delle difficoltà a scriver la mia biografia, poiché non riuscivo a cominciarla…tante false partenze” Ogni volta non racconta di nuovo la stesse cose, ma si apre in maniera differente.
In quanti modi puó cominciare una storia? Un romanzo può iniziare dall’infanzia del protagonista, dal momento più cruciale della sua vicenda, dalla fine per procedere a ritroso; può aprirsi con un flashback; può avere il tono della commedia, del racconto morale, dell’autobiografia; può essere narrato in prima persona, in terza; al tempo presente, al passato remoto; può essere in forma epistolare; può essere raccontato dal punto di vista del protagonista o da quello dei personaggi che gli stanno vicino, può essere raccontato anche in francese, seconda lingua madre di Sarah, e se non sai il francese, come me, improvvisi. Ci sono tanti cominciamenti quanti sono stati i tentativi della protagonista di inquadrarsi, di darsi un senso e darlo alla propria vita. Eppure il senso sfugge. Forse perché non le appartiene ancora. Satta, il giudice scrittore, ne “Il giorno del giudizio” ha scritto che questo senso non appartiene a noi stessi, ma a qualcun altro che alla fine della nostra vita, come un “patetico dio” verrà a farci risorgere e a raccontarci a noi stessi, perché non si può svolgere il filo della nostra vita finché non ci saremo più e forse neanche allora avrà un senso.
È un romanzo depresso a volte, altre volte è divertente, poi diviene sempre altro, sicché sfugge le definizioni e si colloca nel genio.
Alameddine ha inaugurato un nuovo genere: la passione per l’inizio assoluto, il primo gesto che ha in se il senso di tutto quello che ancora verrà. Il risultato ( e detto da un amante dei finali come me è tutto dire) è qualcosa che va oltre la sua opera particolare: Alameddine dà l’avvio a una rivoluzione per la letteratura contemporanea, come un ensō, la sua opera dischiude il cominciamento di un mondo, a livello narrativo con la storia di Sarah, a livello compositivo con il romanzo stesso. Bisogna solo aspettare per capire chi avrà il coraggio di seguire questa direzione.
Ci può essere un qui? No. Ogni volta che è a Beirut, la sua casa è New York. Ogni volta che è a New York, la sua casa è Beirut. La sua casa non è mai dove lei è, ma dove non è.
Stefano Lillium