Longbourn – Jo Baker

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Dunque.

A teatro. Sul palco c’è la famiglia riunita nel salotto buono ed entra il servitore con una missiva che consegna su un piattino d’argento alla signora. O un nobiluomo prende congedo e la servetta gli porge con un piccolo inchino bastone guanti e cappello. O il maggiordomo in livrea apre la porta e annuncia la visita della zia ricca.

Tutti questi personaggi sono funzionali al racconto, ma non sono la Storia, non ne fanno nemmeno parte. La Storia sono la signora, il nobiluomo, la zia ricca; i servitori si ritirano dietro le quinte, e vengono dimenticati mentre la porta si sta ancora chiudendo, diretti al buio mondo oscuro dei quartieri della servitù.

Longbourn è la Storia vista dai servitori. Le luci della ribalta splendono sulla cucina e sulle scuderie, non sul salotto buono; i protagonisti sono la cuoca, il maggiordomo, la servetta, i nobiluomini e gentildonne  dimenticati -o quasi- appena la porta che dà sui quartieri alti viene richiusa alle spalle del servitore, che torna nel suo mondo.

La premessa, converrete, è affascinante, e lo è ancor di più se da bravi appassionati di Jane Austen avrete riconosciuto il nome Longbourn, che è il nome della proprietà dove vivono i Bennet, genitori e cinque figlie, i protagonisti di Orgoglio e Pregiudizio. Questo romanzo è la storia di Pride and Prejudice, con gli stessi esatti accadimenti del libro della Austen, visti e vissuti dal punto di vista dei servitori, disposti come figurine precise lungo il percorso: e quindi quando la signora Bennet manda una lettera a Netherfield, vediamo solo la sua mano elegante che consegna la missiva alla servetta Sara, che poi corre pei campi infangati per consegnarla a un cameriere del signor Bingley.

Tutto ciò, ripeto, è affascinante, lo è anche il solo perdersi “per procura” nel romanzo della Austen, che avviene dietro le quinte, che sono qui i quartieri alti. Jo Baker ha fatto uno sforzo generoso per seguire pari pari Orgoglio e pregiudizio, e adattarvi la sua vicenda. Scrive anche veramente bene, e la ricerca storica è accurata.

questa è la prima premessa, ed è positiva.

La seconda premessa è che io, e penso di trovarmi in buona compagnia qua dentro (non tutti eh, solo quelli ossessivo compulsivi come me), io quando amo un libro e i suoi personaggi, li amo ferocemente, li amo di passione sincera, li amo come Misery, che non deve morire. Non parlo di libri che mi sono piaciuti tanto, o anche proprio proprio TANTO. Parlo di quelli che amo, che porterei sull’isola deserta, che sono con me da una vita, che conosco a memoria e che rileggo ciclicamente da trent’anni. Non sono tantissimi, e in verità difficilmente il loro numero aumenta col tempo, perchè il vero amore, si sa, mica viene distribuito a mazzi al supermercato; ma quando ne trovo uno da amare, è per sempre. E li amo ferocemente, i miei libri da isola deserta non si toccano: nessuno può mettersi lì e scriverne seguiti, parodie o finali alternativi (o avventure successive dopo cinquant’anni, vero signor editore di Harper Lee?) perchè quel giorno lì ti sei svegliato e hai deciso che sei uno scrittore e ti puoi permettere di toccare un classico così alla cazzo, così come non permetterei mai al primo estraneo che passa per strada di toccare i miei figli, di portare in giro i miei cani, di sgridare mia madre. Sono i miei libri, mi accompagnano mentre vivo la mia vita, ascolto il loro costante richiamo ad andarli a trovare nelle loro terre selvagge, e so che potrei tornare da loro, e lo farò, prima o poi, sempre ritorno. Li amo. Questo tanto per rispondere a Ma non hai letto Pride and Prejudice versione zombie, no non l’ho letto, non lo leggerò mai, e francamente sono anche abbastanza sicura che non esista, perchè il sistema che regge l’universo potrà anche essere debole, ma di una cosa ho certezza, il pianeta grigio e opaco abitato dalla versione zombie di un romanzo della Austen è in una galassia molto molto MOLTO lontana dalla mia.

Quindi, ho letto Longbourn perchè non prometteva una versione alternativa di Pride and Prejudice, ma semplicemente la stessa storia della Austen vista attraverso gli occhi di altri personaggi, di contorno all’originale, e non temevo quindi per la mia sanità mentale. Perchè insomma a sto punto avrete capito, data la premessa due, che i personaggi originali non si toccano, non è che puoi arrivare te Jo Baker nel 2013 e decidere che Elizabeth e Darcy hanno bisogno una ritoccatina quaellà. Ennò, Jo Baker, fai la brava e non farmi incarognire, io t’avviso.

Questa è la seconda premessa per leggere Longbourn, e non è del tutto positiva.

Poi abbiamo la premessa storica (eeh ma quante premesse, eh lo so). E’ certo che romanzi come quelli della Austen, della Heyer o della Du Maurier non siano propriamente storici, a volte nemmeno realistici. Charlotte Bronte per esempio osservava come il mondo austeniano fosse secondo lei ordinario, un bel giardino molto ben coltivato, accuratamente recintato, con bei vialetti e fiori delicati. Quello che fa della Austen LA AUSTEN sono i dialoghi, l’ironia, la lucida visione del mondo e dell’umanità; e naturalmente, i personaggi, e le loro storie. Ma che sia scrittrice storica no, non si può dirlo.

La Baker decide invece di esplorare questo aspetto della società di Orgoglio e pregiudizio, buttando in mezzo alle trine e ai merletti dei piani alti le feci, il sangue, il fango, il piscio, il sudore che quelli dei piani bassi devono sfregare, lavare, togliere, grattare dalle vite degli esseri umani “superiori”.

Non mi dispiace come approccio, parlando di servitù è evidente che questa fosse la loro realtà: vite di lavoro duro, giornate interminabili di fatica senza respiro o riposo, appena il tempo di finire un compito per subito passare al successivo, pulire, cucinare, sfregare, bollire, spazzare, lavare e stendere panni, correre, portare pacchi, ritirare pacchi, curare la scrofa e le galline, e rispondere alle chiamate dei piani alti, che in giornate normali erano tante, e in giornate particolari infinite. Il problema è che a volte questo sporco, questo fango, questo zozzume sembra troppo, non ti puoi girare che c’è un gelone scoppiato, una vescica che fa pus, delle mutande sporche da lavare in più, non so, lo capisco che ci teneva a marcare la differenza tra  i mondi ma l’esasperazione del concetto mi infastidisce, mi tira fuori dalla storia. Poi, ho trovato un senso continuato di disillusione come dire, pedagogica: la Baker trova necessario farci capire che i personaggi della Austen sono umani, esattamente come i loro servitori. E quindi le pezzuole del mestruo delle ragazze Bennet, il cordiale altamente alcolico della signora Bennet, Lizzy che non ha le ascelle depilate. E io passo su ste cose pensando che sì, vabbene, questa è la storia dei servi, non dei padroni, se il mondo riflesso ce lo vuol fare vedere così vabbene, ma qualche grosso EMBE’? ogni tanto mi partiva.

Questa è la terza premessa, e mi vira un po’ sul negativo piuttosto e anzichenò.

Maccomunque, date tutte queste brave premesse, passiamo alla ciccia. La storia di Longbourn racconta, come dicevamo, le vite dei servitori dei Bennet: la governante e cuoca signora Hill, suo marito il vecchio maggiordomo sdentato, le due servette Sara e Polly (quest’ultima poco più di una bambina), e il nuovo acquisto stalliere/cameriere/cocchiere James. La vicenda principale verte intorno a Sara, giovane orfana presa come sguattera da piccina, che cresce allevata dalla signora Hill. Il romanzo inizia con il durissimo compito della giornata settimanale dedicata alla Lavanderia, un lavoro puzzolente, estenuante, infinito, che termina con una schifosa cena fredda a base di testa di maiale in gelatina perchè non c’è il tempo di preparare altro. Sara, la protagonista, alterna momenti di moti rivoluzionari interiori in cui si augura che una delle ragazze Bennet per una volta provi cosa vuol dire togliere il fango da certe sopravvesti portate con incuria, a un certo riluttante affetto per le sorelle maggiori Bennet, con le quali è cresciuta e che la trattano con gentile familiarità.

Il romanzo si snoda a fianco delle note vicende austeniane: e quindi l’arrivo del ricco signor Bingley nel vicinato, e poi il Signor Collins, e poi il ballo, e la visita di Jane a Netherfield. E Sara e i suoi colleghi cucinano, puliscono, rammendano, sfregano, e intanto seguono anche loro le note vicende perchè i servi, si sa, in una grande casa sono i primi a sapere, e tutto sanno. Sara non è felice, è inquieta, sogna: di vedere il mare, di partire e camminare senza fermarsi più, di trovare qualcuno che la veda, e che la ami. Polly, la ragazzina sguattera, è più tranquilla: sogna solo di caramelle, di qualche bel nastro, di zucchero e roba da mangiare e di poter dormire. Ma Polly è nata in orfanotrofio, abbandonata sul sagrato della Chiesa in fasce, e non ha mai avuto un’altra vita, e quindi non ha desideri generati dalla nostalgia di cose perdute. Sara ha vissuto coi i genitori e il fratellino fino a che tutta la famiglia si è ammalata di tifo ed è morta, e ricorda ancora come era la sua vita prima di perdere tutto: la risata e il bacio del babbo, la mamma che la cullava, il senso delle proprie cose nella propria casa. E’ un bel personaggio, anche se a volte si comporta con un femminismo che sarebbe parso fuori contesto in una donna del 1950, figuriamoci del 1805.

La storia di Sara si intreccia con quella di James, nuovo cameriere/scudiere appena assunto: dapprima si sdegnano, poi si piacciono ma non si parlano. Il romanzo è diviso in tre parti, e tutta la prima è molto buona. La seconda parte l’ho trovata effettivamente incasinata, tutte le vicende dei servitori devono essere narrate, e s’intrecciano in modo a volte confuso a volte un po’ irritante: la signora Hill e la sua preoccupazione per il futuro della casa quando subentrerà il signor Collins nella successione, James e il suo misterioso passato, poi di nuovo Sara e la sua infatuazione per un domestico mulatto del signor Bingley. La vera nota stonata, comunque, è l’entrata in scena dei personaggi della Austen, che per qualche motivo a questo punto non vengono più tenuti fuori dalle storie dei servi: e quindi abbiamo lunghi dialoghi tra il signor Bennet e la signora Hill, tra la signora Hill e la signora Bennet, tra Sara ed Elizabeth e Jane, tra la signora Hill e Mary Bennet, tra Polly e Wickham, tra il signor Collins e Sara.

Ora. Baker, guardiamoci in faccia. Non tergiversiamo. Come abbiamo detto sopra, io sono Purista, e conosco la Storia a memoria. Se tu, signora Baker, mi tiri in ballo la signora Bennet e me la umanizzi facendo tutto un lavoro in cui racconti di come si è sposata ragazzina tutta carina di nastri e tulle che pareva un babà e poi dopo dieci mesi dal matrimonio la prima gravidanza e dopo tre mesi esatti dalla nascita di Jane ricomincia a vomitare e piange ma non si può fare altro, la sua felicità è totalmente e assolutamente in mano a un uomo, suo marito, e suo marito vuole un erede maschio, e quindi altre gravidanze, e accorgersi che passata l’infatuazione lui comincia a guardarti con pietà e disprezzo, e ancora vomiti e ti domandi quando finirà e finalmente un giorno finisce, non avrai più figli, ma non hai prodotto l’erede, e l’unico mezzo che ti rimane per fare che qualcuno si accorga di te è schiaffare davanti a tutti  grandi scene chiassose e chiedere i sali, se me la umanizzi facendomene intravedere un altro aspetto, può anche piacermi. Posso non essere d’accordo perchè secondo me la Austen la fa già vedere come deve essere vista, e come è, ma non mi dispiace il tentativo. Forse posso anche accettare che tu dia diverse battute al Signor Bennet facendolo però parlare come un nobiluomo qualunque, quando è uno dei personaggi più ironici, sarcastici e intelligenti di Orgoglio e pregiudizio, o che tu prenda il Signor Collins e lo renda un po’ più umano e oggetto di pietas. Ma a tutto c’è un limite; dovrebbe esser la storia dei servitori, e a un certo punto non li vedi più, soffocati dall’arrivo di quelli dei piani alti, Mary, Elizabeth, Jane, e Wickham, tutti un po’ rimodellati, tutti con una frase qua e un aggettivo là sminuiti, rimpiccioliti, impoveriti, e non ci siamo.

Questa è la cosa che più mi ha dato fastidio, in tutto il libro: è scritto bene, ha un’idea originale, ha dei personaggi interessanti, c’è anche una storia d’amore abbastanza delicata che fa in un certo senso da contraltare a quella principale del romanzo, anche qui un po’ di orgoglio e pregiudizi vari in Sara e James, prima di arrivarare a capirsi e amarsi. Eppure a un certo punto invece di continuare per la sua strada Longbourn si deve imbastardire, trascinando con sè anche la storia originale. Non è neanche una questione di confronto, è che QUEL libro non lo devi toccare proprio, se non l’ho spiegato abbastanza.

La terza parte, che vi devo dire, per me è proprio una debacle: innanzitutto una rivelazione/twist plot/annunciaziò assurda, ma cosa dico assurda, grottesca, improbabile, inconcepibile. Una roba che proprio Blah. Poi 20 pagine che sembrano trecento, un macigno sulla crudeltà ed efferatezza (altro piscio, vomito, sangue, torture) della guerra, nello specifico le schermaglie sul Continente durante il conflitto per l’Indipendenza spagnola, un capitolo che non aggiunge molto, e appare fuori luogo, nella struttura del romanzo.

Poi, il finale, pure quello, per me non del tutto soddisfacente. Io ho l’impressione che la Baker sia partita bene con l’idea di fare un romanzo a parte, “a lato” di Orgoglio e pregiudizio, più realistico, più duro, meno romance e più veritiero, meno intelligente ma più storico, e si sia poi trovata tra le mani un romanzo corale, senza saperlo gestire, troppi punti di vista di troppi personaggi, e soprattutto a un certo punto perdendo la direzione. E alla fine fine, è vero come dice Lazzìa che questi personaggi di Longbourn camminano sulle proprie gambette, perchè la Baker scrive bene e li sa rendere vivi. Però per me è come se non sapessero dove andare, perchè negli ultimi capitoli, nel momento in cui finisce Orgoglio e pregiudizio e la storia deve reggersi sulle proprie capacità, naufraga.

riassumendo:

se siete puristi della Austen, no

se avete un vago ricordo di pride and prejudice e comunque non siete hardcore fan dei classici che non si toccano MAI, sì

se non vi piacciono i romanzi, ni

Metto due commenti, uno negativo che mi ha fatto ridere:

Where do I start?
Actually, that’s easy. Any review of Longbourn should feature this warning right at the top: If you are an Austen purist, this book will give you a stroke and a heart attack and possibly cancer.

Però, per la par condicio, Sara quando incontra Mr. Darcy e il signor Bingley (molto ben scritto): Blue coat, black horse: that was Mr. Bingley. The great tall fellow in the green was Mr. Darcy again. They clipped past the orchard, in profile and oblivious to the housemaids: Sarah felt herself fade. She could see the leaves and branches through her hand; the sun shone straight through her skin.

E buona serata!

Mrs Collins

La frase di apertura di Orgoglio e Pregiudizio è una delle più citate della letteratura inglese come massimo esempio della delicata ironia di Jane Austen, oggetto di tesi e discussioni, stampata su magliette, tazze e cuscini, e reinterpretata a piacere; generazioni di lettori hanno sorriso al pensiero di come sia “una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di una moglie”. Parlando della Austen, è presumibile che la frase abbia avuto nelle intenzioni dell’autrice un doppio significato: è altrettanto vero, allora, che una ragazza povera sia disperatamente in cerca di un marito ricco, con la differenza che in questa frase è necessario aggiungere l’avverbio, perchè lo scapolo non ha fretta, non ha concorrenza, non ha reale disperazione, nella sua ricerca.

In Pride and Prejudice c’è questo personaggio che si chiama Charlotte Lucas, la più cara amica della protagonista Elizabeth Bennet. Charlotte ha 27 anni, non bella, è intelligente, spiritosa, di molto buon senso. La sua amicizia con Elizabeth è di lunga data, sono spiriti affini per una serie di carattestiche, e condividono un comune senso di umorismo e ironia nei confronti della società in cui vivono.

All’inizio del romanzo, durante una conversazione con Elizabeth, Charlotte esprime alcune opinioni sul matrimonio che pongono le basi di quella che sarà la sua vicenda personale. Alla fine del ‘700 in Inghilterra raramente ci si sposava per sentimento: quasi sempre erano combinate dai genitori, per unire terre, consolidare o guadagnare stati sociali, o semplicemente per mantenere beni in famiglia. Le ragazze non venivano precisamente costrette a sposare chi non volevano, ma se lo stato del fidanzato era gradito ai genitori, c’erano comunque mezzi di persuasione che si potevano adottare. E poi, l’educazione di una vita intera congiurava ad allevare ragazze obbedienti, timorose e poco educate culturalmente, che è il primo passo per rimanere lontane da una presa di coscienza di sè e del proprio valore, e del desiderio di indipendenza. Nel dialogo cui accennavo, le due amiche parlano di Jane, sorella di Elizabeth, recentemente infatuatasi di Mr. Bingley, e Charlotte osserva come in fondo sia poi poco utile conoscere bene il proprio fidanzato: le sorprese arriveranno comunque abbastanza presto durante il matrimonio. Lizzy ride, e pensa che l’amica stia scherzando. Ma Charlotte è serissima.

Un giorno arriva in visita dai Bennet il signor Collins, uno dei personaggi più sgradevoli mai usciti dalla penna di uno scrittore: è untuoso, lecchino, pomposo, brutto, se la tirella, e soprattutto è stupido. E’ un vicario in una distante località, e si presenta al paesello delle Nostre perchè cerca moglie. Ovviamente si fissa su Elizabeth, che lo rifiuta con garbo; l’orrore della di lei madre, che non sa come fare per accasare cinque figlie con dote quasi inesistente, è infinito: minacce, strepiti, svenimenti, piagnistei, mi si diano i sali. Il tutto culmina in una famosa scena in cui la genitrice chiede al capofamiglia di intervenire e di far rinsavire la propria figlia, o le toglierà per sempre il saluto. Il signor Bennet si rivolge ad Elizabeth esprimendo solidarietà e paterna vicinanza: Ti trovi di fronte a un bel dilemma, carissima. Se rifiuti il signor Collins, la tua signora madre non ti parlerà più. Ma se lo accetti, figlia mia, sarò IO a non rivolgerti mai più la parola. Al che la signora madre ovviamente capisce di aver perso e si ritira nelle proprie stanze strillando.

Qualche giorno dopo, la famiglia Bennet apprende con stupore che il signor Collins si è fidanzato con Charlotte Lucas, che si sposeranno a breve e si trasferiranno a casa di lui. Elizabeth ne è sinceramente sconvolta, addirittura incredula: è il sentimento che ti prende quando una persona che conosci bene, che era tua amica, improvvisamente agisce in un modo inspiegabile e inatteso, che non capisci e per la prima volta non puoi accettare nè comprendere. I Lucas vengono in visita per salutare, le due ragazze trovano qualche momento per parlare, e il dialogo e i ragionamenti che seguono sono tra i migliori scritti dell’intera letteratura femminile, una summa di articoli di Cosmopolitan e Vanity Fair dell’epoca.

Perchè? perchè Charlotte è una ragazza poco attraente, vecchia in una società in cui ci si sposava entro i ventun anni al massimo, e soprattutto non ricca. I suoi genitori sono nobili, benestanti con una serie infinita di figli, le femmine non ereditano titoli o beni, solo una piccola rendita. Una ragazza della società bene non può lavorare, e deve dipendere finanziariamente da un uomo, che sia il padre, o un marito, o un fratello. Mr Collins l’untuoso ha fatto questo viaggio con il dichiarato scopo di trovar moglie: nel momento in cui viene rifiutato da Elizabeth, si butta sull’amica di lei, che offre una volonterosa spalla su cui consolarsi. Charlotte entra in questa relazione con gli occhi ben aperti, forse pure troppo: vede il proprio futuro, alla morte dei propri genitori, come un lungo susseguirsi da una casa all’altra di parenti, l’eterna zia povera, triste zitella che i vari fratelli si rimbalzeranno da un soggiorno al successivo, senza una propria casa, senza mezzi e affetti. Di contro, il signor Collins è un altro tipo di futuro: è un marito, quindi le può garantire una casa e una rendita più che dignitosa, e anche affetti: non è possibile amarlo, ma si possono avere figli da lui.

Elizabeth accenna un tentativo di protesta parlando dei difetti di carattere del promesso sposo. E Charlotte si sbilancia: li vede bene, questi difetti. E proprio perchè li vede, pensa che il proprio matrimonio abbia le stesse probabilità di successo di qualunque altro matrimonio (ovviamente dell’epoca), in cui si entra accecati dall’innamoramento, conoscendo poco il fidanzato, per poi scoprire dopo qualche tempo i vari difetti del consorte. In tutti e due i tipi di relazione, spiega Charlotte, bisogna adattarsi, comprendere, accettare compromessi: io, semplicemente, arrivo già preparata. Non chiedo un grande romanzo d’amore: chiedo solo una casa confortevole.

Elizabeth esce dal colloquio sconcertata, questi discorsi non li può accettare dalla sua più cara amica; lei stessa vive nella medesima condizione di Charlotte: è certamente più bella, ma non ha reali prospettive o futuri mezzi di sostentamento su cui contare. Eppure lei non si è piegata a un mero matrimonio di interesse, non per il concetto di matrimonio di interesse in sè (tutte le ragazze dell’epoca avevano una chiara concezione delle dinamiche economiche di una società in cui il denaro era in mano ai maschi) ma proprio per un discorso etico. Per Elizabeth, è concepibile sposare un uomo che non ami, date le circostanza della società in cui vive. Non lo è sposare un uomo che disprezzi.

La scelta di Charlotte è sempre stata cause di controverse discussioni tra femmene appassionate di Jane Austen. Per molti anni, quand’ero più giovane, la sua mi è sembrata una scelta da compatire: fa pena Charlotte, ragazza poco attraente e senza soldi, avviata verso una carriera di zitellaggio, che salta sulla prima proposta di matrimonio che arriva. Mi sembrava una di quelle ragazze, e mogli, che pur di non stare sole stanno con fidanzati, e mariti, che non amano e non rispettano, perchè la solitudine è per loro il peggiore dei mali. La mia amica Bobby, massima esperta di Austen negli anni scolastici, diceva che Charlotte con la sua mosciaggine la faceva incazzare; è facile provare antipatia per lei, anche perchè la sua vicenda fa da contraltare a quella di Elizabeth, che non si piega a compromessi, e la sua dirittura morale verrà premiata, perchè sposerà un uomo che ama, e pure ricco. E bbòno. Sigh.

Negli anni successivi, maturando, la scelta di Charlotte mi è apparsa più coraggiosa: non è una donnetta che rimane a piagnucolare su quello che non può avere. Il destino le offre un’opportunità per cambiare le cose, e lei lo fa, prendendo in mano la propria vita, per quello che le è possibile. E’ la vita reale di contrasto al sogno romantico. Non ha illusioni Charlotte, però non si piange addosso, non inganna e rimane onesta, e sicuramente non cerca compassione.

L’unica cosa che veramente mi è sempre dispiaciuta è che perde la stima di Elizabeth, e di conseguenza l’amicizia. Durante la visita che le Bennet fanno alla coppia di novelli sposi in casa Collins, Elizabeth osserva come ogni volta che Mr. Collins dice qualcosa di imbarazzante (molto sovente, ahimè) Charlotte diventi improvvisamente sorda; e capisce quindi che l’amica non è cambiata, non si è di colpo rincretinita, sa molto bene chi ha sposato. E se riesce a trovare dentro di sè comprensione ed empatia per l’amica, non può però avvicinarsi a lei. Il loro mondo di confidenze e ironia verso l’umanità che le circonda è chiuso, perso per sempre, Charlotte non potrà mai ridere della persona che ha sposato con l’amica, della sua stupidità e del suo servilismo. E da questo non si torna indietro.

Credo che Elizabeth capisca che non tutti possono avere lo stesso atteggiamento verso la vita, nè l’opportunità di essere superiori a certe situazioni. Ma non nasconde di provare poca stima per le scelte dell’amica, che in senso stretto trova immorali. Pur ammettendo che l’opinione di Charlotte sul matrimonio non coincida esattamente con la propria, non capisce come possa aver sacrificato ogni speranza di un sentimento migliore per una pura ragione economica. E al dolore di vedere quella che era stata la sua più cara amica cadere così in basso nella propria stima, si aggiunge la sincera convinzione che Charlotte non potrà mai essere davvero felice nel cammino che si è scelta.

C’è molto di quel che pensa Jane Austen, in questo, lei stessa donna atipica della propria società, che rifiutò di sposare un amico di famiglia solo per la tranquillità economica. Scrisse in varie lettere a nipoti e sorelle cosa pensava del matrimonio di convenienza, e del fatto che si potevano fare sacrifici per sopravvivere da soli, ma non era accettabile sposare qualcuno senza sentimenti coinvolti. Visse per molto tempo in regime di stretta economia perchè senza entrate proprie doveva dipendere dal fratello, e solo dopo vari anni riuscì a guadagnare con le vendite dei propri libri. Quindi quando Charlotte viene descritta come oggetto di commiserazione se non proprio di disdegno, è sicuramente l’autrice a parlare, non è solo un modo per veicolare la trama verso i personaggi più virtuosi. E a volte penso che ci sia proprio della cattiveria, nel modo in cui Charlotte sia praticamente l’unica, nel romanzo, a non sposarsi felicemente (Lydia non avrà forse un matrimonio felice in futuro, ma si sposa con sentimento. E comunque è così stupida che non se ne accorgerà se non dopo molto tempo).

Eppure, Charlotte negli anni si è guadagnata il suo posto nella mia personale classifica di donne letterarie bistrattate da rispettare (laddove prima sul podio rimane intoccabile Becky Sharp), per la sua ironia e la sua capacità di affrontare il destino senza spezzarsi. Mi piace pensare che maturando le due amiche si siano riavvicinate, anche solo con guizzo di ironia negli occhi mentre si passano una tazza di tè, e Collins corre fuori a salutare la carrozza di Lady Catherine che passa in una nuvola di polvere.

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