Mille splendidi soli – Khaled Hosseini #KhaledHosseini #recensione

*Leggere il mondo: Afghanistan

“Non si possono contare le lune che brillano sui suoi tetti, né i mille splendidi soli che si nascondono dietro i suoi muri”

Saib-e-Tabrizi parlando della città di Kabul

Mille splendidi soli è un romanzo che racconta la vite di due donne afghane, Mariam e Laila, coraggiose e di carattere nonostante le avversità personali e la terribile storia del Paese in cui vivono, che condividono una casa (e un marito) per molti anni. E’ un libro famosissimo, che ho letto con ritardo e aspettative molto alte, e ammetto con dispiacere che non sono state del tutto raggiunte. So di essere in disaccordo con milioni di lettori e direi soprattutto lettrici, ma per me non è stata una lettura particolarmente memorabile.

E’ ovviamente un romanzo di qualità, d’altronde non soggiorni per mesi in cima alle classifiche del New York Times per niente, lo stile è in genere davvero lirico e la storia abbastanza ricca, abbracciando un periodo di quasi quarant’anni di vicende afgane. Manca il grande respiro corale dei capolavori della letteratura, però si legge con una certa scorrevolezza, e senz’altro raggiunge almeno uno scopo preciso, a fine lettura vuoi solo corcare di mazzate tutti i talebani che ti possano capitare sotto mano, e se sei donna, dopo averli corcati desideri passargli sopra con un trattore e poi ingranare la retromarcia. In questo senso, lo scrittore non sbaglia: il calvario delle vite di queste donne sottomesse al regime è descritto in modo grafico e crudele, la brutalità insensata di interi decenni passati a vivere in guerra, la pazzia sconfortante di certi estremisti religiosi, la psicosi malata di un sistema basato sul maschilismo più becero, tutto è reso in modo vivo e  drammatico. Purtroppo il patimento è così costante, il loro martirio così infinito, il sadismo (e diciamolo pure, la sfiga), così durevoli che all’ennesima brutalità da parte del marito manesco verso le protagoniste mi si scatenava una sorta di effetto Dickens al contrario: avrebbe dovuto essere così patetico nelle intenzioni dell’autore che l’esasperazione della situazione semplicemente mi tirava fuori dalla storia.

Aggiungo che non trovo Khaled Hosseini così bravo nella descrizione dei personaggi, che sono tutti o veramente cattivi, o irritantemente buoni. Anche le situazioni proposte sono sempre un poco stereotipate, alcune addirittura al limite della telenovela, e il voler contestualizzare momenti della storia dell’Afghanistan inserendoli nelle vite dei personaggi non gli riesce sempre, a volte pare di leggere un trafiletto di Wikipedia inserito tanto per chiarire una nozione mancante.

Detto ciò laddove la storia è scritta bene, è davvero scritta bene: l’inizio è superbo, così come la descrizione di certi momenti di vita comune, delle pietanze, della vita del popolino nella Kabul in guerra. Riesce a veicolare molto bene l’estremo sessismo e ignoranza di un regime, l’assurdità di negare diritti elementari come la salute o l’istruzione a una persona solo perchè è di sesso femminile, il considerare la libertà un abominio e il desiderio di cultura una blasfemia.

Riesce, soprattutto, a raccontare il vero destino delle donne che hanno vissuto sotto quel regime non come protagoniste, ma come vittime che potevano solo sopportare sperando in tempi migliori: chi aiutandosi in un grande cerchio di comune sorellanza con le altre donne, che è sempre un tema vivo e oserei dire sincero, chi cercando consolazione nell’unico amore disinteressato e puro delle proprie vite, quello per i figli.

Distesa sul divano, con le mani tra le ginocchia, Mariam fissava i mulinelli di neve che turbinavano fuori dalla finestra.
Una volta Nana le aveva detto che ogni fiocco di neve era il sospiro di una donna infelice da qualche parte del mondo. Che tutti i sospiri che si elevavano al cielo si raccoglievano a formare le nubi, e poi si spezzavano in minuti frantumi, cadendo silenziosamente sulla gente.
“A ricordo di come soffrono le donne come noi” aveva detto. “Di come sopportiamo in silenzio tutto ciò che ci cade addosso”.

Mi dispiace di essere rimasta un po’ delusa perchè ne avevo letto più che bene; però voi non fidatevi di me visto che è un best-seller apprezzatissimo, e se l’argomento vi attira leggetelo. Al di là di stile e talento ha in ogni caso il pregio di dare voce a persone che in Afghanistan non hanno potuto parlare per decenni, e avere questo come fine non è mai sbagliato.

Lorenza Inquisition

Il libraio di Kabul – Asne Seierstad

“Consideravano come nemici del popolo tutti coloro che amavano le immagini, i libri, le sculture, la musica, il ballo, i film e il libero pensiero”.
Åsne-Seierstad-Il-libraio-di-Kabul-Ed.-Sonzogno

Ho terminato ora di leggere Il libraio di Kabul di Asne Seierstad (edizioni Bur), dove si offre un reportage in forma di romanzo della difficile storia  dell’Afghanistan che cerca di risollevarsi dopo la guerra. Si entra lentamente a far parte della famiglia del libraio, vedendo come abbia vissuto gli anni di governo dei talebani e di tutti quelli che hanno assunto il comando del Paese dalla fine del Novecento fino alla storia più recente dell’Afghanistan, con molti riferimenti a un passato meno conosciuto. Il fulcro di tutto è, più che la storia o la politica, la numerosa famiglia del protagonista, divisa tra l’Afghanistan e il Pakistan. I componenti della famiglia sono sottomessi all’assoluto volere e potere del capofamiglia, e nel romanzo si viene a capire come ognuno di loro reagisca durante gli anni delle varie dominazioni subite dal Paese e all’evoluzione del concetto di parentela.

C’è chi si avvicina alla religione in maniera totale ma poi se ne allontana, chi si ribella al capofamiglia, chi di nascosto tesse il suo sogno di fare l’insegnante e ci prova, chi accetta ogni regola e si piega al volere del padre, chi non può fare altro che guardare ogni cosa da lontano accettando la volontà del marito senza poterlo contrastare.

In me ha soprattutto risvegliato un senso di forte solidarietà con le donne di questo paese. Umiliate, spersonalizzate, spogliate dalla possibilità di sognare, pensare, amare. Di essere. La società in cui vivono, d’altronde, è un contesto culturale dove «il termine per sposa e bambola è lo stesso: arus». E una bambola non può che dipendere da chi la possiede. Una condizione che mi ha riportato in mente la lettura di un vecchio testo degli Anni ’60 sulle istituzioni: Asylum di Goffman. In questo caso si trattava di un’indagine sulle istituzioni totali, dei manicomi (quelli che c’erano prima della Legge Basaglia) . La persona internata subiva un processo di spoliazione della propria personalità, di annientamento e annullamento, proprio come queste donne vivono fin dalla tenera età. Certo il mio è un giudizio che arriva da un osservatorio privilegiato e lontano anni luce da questa cultura ma ciò non toglie che a queste donne è negata la possibilità di “essere”.

Liliosa T.

DESCRIZIONE

In questo libro, il resoconto dettagliato, intenso e appassionante di Åsne Seierstadt, giornalista norvegese e corrispondente di guerra giunta in Afghanistan nel novembre 2001.
Dopo la caduta del regime talebano, Åsne capita per caso in una libreria ed è l’incontro con Sultan Khan, il proprietario, un libraio incarcerato per due volte in nome delle libertà intellettuale e della dignità del suo paese, a stimolare in lei il desiderio di entrare nelle profondità della cultura afgana. Per questo avanza al libraio una proposta azzardata: chiede di poter vivere a casa sua, completamente immersa nella quotidiana vita domestica dei Khan, con lo scopo di scrivere un libro sulla famiglia ospitante.
La risposta del libraio è sorprendentemente semplice: dapprima ringrazia, per poi ripetere per due volte «benvenuta». Accolta in casa Khan, diventata per circa un anno la “figlia bionda” del libraio, benvenuta Åsne lo è davvero: in casa vige l’ordine di non farle mancare nulla e tutti sono colmi di riguardi nei suoi confronti. Da testimone ci racconta storie di libri salvati e squarci di vita quotidiana in Afghanistan attraverso amori proibiti, matrimoni combinati, crimini, punizioni, ma anche solidarietà e legami fortissimi. La permanenza in casa Khan tuttavia non è un idillio, perché non lo è, né può esserlo, il contatto di una donna occidentale con una società che, alle donne, non riconosce molti diritti.
Il regime talebano, infatti, sebbene crollato, «non è scomparso dalle menti delle donne», né, tanto meno, da quelle degli uomini.
Suscita scalpore, per non dire sdegno, che una donna senta il bisogno di lavorare o di ricevere un’istruzione, e questo non è che la prima delle ingiustizie mostrate dall’autrice. Il libraio di Kabul non è tuttavia un libro che dà qualche giudizio, ma è semplicemente una testimonianza di un’esperienza vissuta in prima persona. Molti aspetti della loro religione e del loro credo sono difficili da comprendere, soprattutto se si è donne e non legate alla fede, ma la lettura de “Il libraio di Kabul” sarà uno stimolo a cercare di capire il loro punto di vista, quello di chi è diverso da noi.