Medea – Euripide #Medea

…Ma non vale per me e per voi lo stesso discorso. Voi avete qui patria, casa, amici…io sono sola, senza patria, offesa dal marito che mi portò via da una terra straniera come una preda…non ho madre, non ho fratelli o parenti come riparo da questa sventura. A voi chiedo: troverò il modo di far pagare a lui la giusta pena del male che mi ha fatto? Voi tacete: la donna è spesso piena di paura, inadatta alla lotta, e rabbrividisce alla vista di un’arma. Ma quando sia offesa nell’amore coniugale, non c’è altro cuore più del suo assetato di sangue.”

medea(MEDEA, P. DELACROIX)

Per il nr.17 della Sfida, Un libro scritto in una lingua morta, ho deciso di rileggermi un testo che mi ha accompagnato nei miei giovanili anni ruggenti, Medea di Euripide.

Medea è uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca: nelle sue vene scorre il sangue della maga Circe, ed è figlia del Re Eete, che custodiva presso la sua corte il Vello D’Oro. Quando Giasone con gli Argonauti si presenta alla ricerca del Vello, Medea si innamora perdutamente del giovane eroe, al punto di arrivare a tradire e uccidere il proprio fratello pur di aiutare l’amato nell’impresa. I due amanti fuggono, Medea lasciandosi alle spalle famiglia, trono e status sociale di figlia di Re, e dopo varie peripezie (e ammazzamenti diffusi) arrivano infine a Corinto, dove si sposeranno.

La Medea di Euripide si apre dieci anni dopo queste vicende: il Re di Corinto vuole dare in moglie a Giasone la propria figlia minore. L’eroe, che pure è sposato con Medea e ha avuto due figli da lei, visto che questo matrimonio gli consentirebbe la successione al trono decide di accettare l’offerta, ripudiando la prima moglie.

Medea non è donna con cui scherzare, Medea è donna-eroina, e per la prima volta in questo testo di Euripide la protagonista femminile cessa di essere un personaggio che vive nella luce e nella prospettiva dell’eroe maschile. La sua ira è terribile, le sue passioni devastanti, il suo animo indomabile, e il poeta sceglie di rappresentare il dramma della donna tradita in tutta la sua grandezza, senza timore di dover raggiungere il fondo più misero dell’abiezione umana. Il Re di Corinto, sospettando una possibile vendetta, intima alla donna di lasciare la città, ma nascondendo con abilità i propri veri sentimenti, Medea ottiene il permesso di restare ancora un giorno, che le servirà per attuare il proprio terribile piano. Accetta un colloquio con Giasone, che involontariamente con le sue parole che giustificano banali ragioni di convenienza si gioca la sua ultima possibilità: per stessa ammissione del marito, Medea non è colpevole in alcun modo di questo suo voltafaccia, ma è comunque tenuta dalle convenzioni sociali ad accettare benevolmente l’abbandono assoggettandosi al volere di un uomo.

Ma Medea, orgogliosa ed eroica erede della stirpe del Sole, inflessibilmente decide che solo la pura vendetta potrà lavare l’onta recata dal marito; figlia di Re, non accetta il disonore del ripudio, l’ingiustizia dell’esilio. Scatena quindi le sue arti magiche e il suo furore contro la rivale, alla quale invia una veste intrisa di veleno che la ucciderà tra orribili sofferenze, una scena tremenda che non ha niente da invidiare al moderno splatter, insieme al padre accorso per cercare di aiutarla. Quindi si vendica sul marito, decisa a impedirgli qualsiasi futuro dinastico. E’ inoltre consapevole che tutto ciò che ha di più caro si relaziona comunque a lui, e recide per sempre ogni legame che li unisce, assassinando, dopo un lungo monologo ove combatte un’estenuante battaglia contro il proprio affetto di madre, i suoi stessi figli. Medea rappresenta tutta la follia che il dolore accumulato può scatenare, una donna che nemmeno di fronte all’orrore del proprio gesto di madre che uccide i figli può sopportare di cedere e dimenticare l’orgoglio ferito.

Questo è un testo tragico, di grande impatto emotivo. Ho detto che nei miei anni ruggenti mi ha accompagnato, e confesso che tornavo a rileggerlo dopo qualche rottura dolorosa con un fidanzato, o in quei momenti (pochi per fortuna) di grande solitudine alla fine di una relazione. Si attraversano vari stadi quando un amore finisce, e c’è sempre quello della rabbia, dell’orgoglio ferito, della passione che si sente tradita: in quei momenti, nessuno come Medea con la sua ira di donna ingiustamente abbandonata mi capiva. Mi piaceva, soprattutto, che pur essendo violenta e selvaggia nella sua passione, fosse capace di logica spietata nell’attuare la sua vendetta: non perchè la attuava, ovviamente, troppo orribile quel fatto. Ma perchè era una donna abbandonata e tradita, sola in terra straniera, che riusciva comunque da sola a tirarsene fuori, con la sua unica indomabile volontà, pur vivendo un dolore indescrivibile. E questo, nei miei momenti di dolore e solitudine, mi aiutava, mi dava speranza.

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Penso che sia un testo scritto mirabilmente, perchè secondo me non si riesce a condannare davvero lo spirito di Medea, così forte e tragico: vittima di un destino meschino deciso per lei da uomini che vorrebbero vederla a capo chino e umiliata, sceglie il più grande dolore personale, ma non si sottomette. E’ orribile, è inumano, è contro natura quanto si vuole: ma questa è una donna che attraversa i secoli gridando Nessuno, uomo o donna, decide per me. IO, decido per me.

C’è anche un’altra sensazione che trasmette, un senso di solitudine infinita che nemmeno la presenza dell’amata prole può colmare, ma che anzi la acuisce, portandola all’estrema e fatale decisione.

Alla prossima rilettura, Medea, creatura infelice destinata all’espiazione, straniera, sola, diversa, seminatrice di morte ma anche vittima. E grazie a Euripide che ha avuto il coraggio di portare sulla scena per la prima volta le ragioni e le passioni che esistono nel mondo delle donne, abbandonando la clausura del gineceo.

Lorenza Inquisition

 

 

Rolf Hochhuth – Il Vicario #IlVicario

ilvicario

Il testo brilla di luce propria. Un testo lucido, scarnificato, che indaga dove c’è silenzio, che cerca una ragione dove ragione non c’è, che ci interpella tutti, senza scampo.
Il silenzio di Pio XII di fronte al genocidio nazista, la totale assenza di ragione dei medici di Aktion T4, l’impegno al limite del martirio di figure tanto minori quanto gigantesche, a confronto con i grandi del tempo; tutto è presente, nel testo, come in un sistema meccanico perfetto; un meccanismo con un’anima, che si interroga sulla presenza dell’anima laddove non dovrebbero esserci dubbi che ci sia, ovvero nel Vicario di Cristo, il Papa.
Cinque atti tesi, densi di parole, ma mai verbosi; cinque atti storicamente rigorosi, scevri da morbosi particolari, fitti di emozioni. Il lettore è spinto a cercare le proprie ragioni, attraverso i punti di vista che si intrecciano, si contrappongono, si contraddicono. E la storia non è magistra, no. Ma ognuno trae dalla storia le proprie coordinate di vita.

E non pretendiamo di trovarlo in libreria: non lo si stampa più. Il silenzio, anche in questo caso, è ritenuto il percorso migliore.

A margine, una nota: in questi giorni il Teatro Elfo lo mette in scena. Una versione prosciugata, assenza di scene, luci intense, una recitazione coinvolgente e perfetta. in conclusione, la lettura di una Lettera di una ragazza di Ostia, scritta da Hochhuth sintetizzando lo spirito di tutte le vittime innocenti di una barbarie che si sarebbe potuta, forse, evitare.
Lo spettacolo più emozionante a cui abbia assistito da lungo tempo.
Se potete, non perdetevelo.

Lalab

DESCRIZIONE

Il Vicario è un’opera teatrale scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth nel 1963. Il titolo originale dell’opera “Der Stellvertetrer” fa riferimento al Papa che è “Gottes Stellvertreter” cioè il Vicario di Cristo.

Il testo affronta la scottante questione delle responsabilità di Papa Pio XII verso l’olocausto, accusando il “Pastore Angelico” di passiva e cosciente complicità con il Nazismo nello sterminio degli ebrei.

Rappresentata a Berlino nel 1963, prodotta da Erwin Piscator, e nell’anno successivo a Londra, sollevò un forte dibattito politico e culturale, del pari alle precedenti opere di Camus e Mauriac sullo stesso tema, causando «denigrazioni accanite come consensi entusiastici», secondo la descrizione di Carlo Bo sulle polemiche seguite alla pubblicazione in Italia del testo, per i tipi della Feltrinelli.

Nel 1965 la pièce venne allestita a Roma dal regista Carlo Cecchi, all’interno d’un improvvisato teatro ricavato in una cantina di via Belsiana, con la partecipazione di Gian Maria Volonté. La versione italiana de Il Vicario fu messa in scena nella sola serata del debutto; il giorno successivo la Polizia fece chiudere il teatro per mancanza del certificato di agibilità dei locali e, nei giorni seguenti, il Prefetto di Roma vietò lo spettacolo in quanto contrario alle norme contenute nel Concordato.

La censura provocò un’azione di protesta dei teatranti e dei sostenitori che si asserragliarono nel teatro minacciando lo sciopero della fame a oltranza, circondati per tre giorni dalle forze di polizia, decise a rallentare l’afflusso di giornalisti e curiosi. Tra i partecipanti allo sciopero, lo stesso Volonté e l’attivista Franco Piperno.La protesta ebbe comunque vita breve, fors’anche per l’ironico servizio di 16 pagine pubblicato dal settimanale satirico Lo Specchio, corredato da numerose fotografie che dimostravano i rifornimenti di uova sode e salsicce agli scioperanti.

La pièce fu poi rappresentata nel teatro di Santa Apollonia a Firenze promossa dall’ORUF , Organismo rappresentativo degli studenti ; il teatro era una chiesa sconsacrata gestita nell’ambito universitario dagli studenti e quindi “autonoma” dalle regole dell’ordine pubblico.

Dall’opera teatrale, nel 2002, sono stati tratti il soggetto e la sceneggiatura del film storico Amen, diretto dal regista greco Costa-Gavras.