Redeployment – Phil Klay #FineMissione #PhilKlay

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Redeployment di Phil Klay (in italiano edito da Einaudi come Fine missione) è una raccolta di 12 racconti, tutti narrati in prima persona, con protagonisti reduci della guerra in Iraq durante gli anni di Operation Iraqi Freedom (2003 – 2011). Il libro ha vinto nel 2014 il National Book Award, che in America è secondo solo al Pulitzer in materia di premi letterari, ed è sorprendentemente ben scritto. Ma non lo si legge per quello, lo si fa per conoscere una pagina di storia a noi contemporanea attraverso le voci di coloro che meno di tutti mentono, i soldati che c’erano, e sono tornati dal fronte. L’autore stesso è un ex-marine, arruolatosi dopo il college, stanziato in Iraq per un anno; al ritorno, ha lavorato per circa tre anni a questo libro, in cui voleva parlare della sua esperienza (che egli stesso definisce di media traumaticità in quanto non prese mai parte a combattimenti attivi) ma soprattutto di quelle di ex  marines suoi amici e compagni, evitando in generale un discorso politico per esplorare il lato puramente personale e umano di un americano in guerra, in quella guerra.

Non avevo ancora letto nessun libro su questo conflitto, anche se naturalmente si sono visti molti ottimi film; niente come Hollywood arriva sul pezzo dopo qualche tempo. Ci arriva così bene, spiega uno dei protagonisti di Redeplyoment, che ogni generazione di americani, e in fondo ogni spettatore esterno occidentale, ormai entra nella guerra del proprio tempo con una precisa immagine visiva in testa, quella della guerra precedente, dove combatterono i propri padri, o i loro coetanei.  Per cui questi ragazzi sono arrivati al fronte nel 2003 con in mente Full Metal Jacket, Platoon e Apocalypse Now; i loro padri sono andati in Corea con in testa la fotografia dei Marines che issano la bandiera a Iwo Jima e a Omaha Beach; e i ragazzini di oggi che fra dieci anni si arruoleranno per un nuovo conflitto, arriveranno al fronte con in memoria fotogrammi di The hurt locker e American Sniper, una storia che si ripete all’infinito nella sua insensata violenza, e mai insegna.

E’ un libro duro e brutale, sia per i racconti ambientati al fronte, sia per quelli del rientro a casa perchè è verità riconosciuta che nessuno torna mai veramente da una guerra. Il senso, in fondo, dovrebbe essere ormai tutto qui, in queste tragedie di rimorsi, solitudine e disperazione. Nell’insanabile baratro esistenziale tra chi combatte e il Paese che manda a combattere, non intendendo solo il governo ma i concittadini, impotenti a capire perchè solo chi è stato al fronte può farlo. Nell’inutilità di vite spese non solo in missione ma anche dopo, quando il ritorno a casa è già avvenuto, la guerra è finita, e lo specchio rimanda l’immagine di un fantasma: qualcuno si suicida, molti tornano a combattere, qualcuno ce la fa. Nell’impossibilità di comprendere un nemico che in questa carneficina tribale non si voleva, in fondo, nè vedere nè capire. Nel cinismo di milioni di dollari buttati, di prese in giro dei contribuenti, di comandanti di reparto che non rispettano le regole di ingaggio permettendo comportamenti aberranti nelle truppe perchè in qualche modo bisogna pur motivarlo, il plotone.

Sono storie di eroi a volte per scelta, a volte di appartenenza, di individui lasciati soli in un dovere che il resto del mondo spesso non riconosce, di assassini addestrati ad esportare la democrazia in una guerra definita (come sempre) necessaria, nella realtà senza vittorie nè mitologia. Alcuni di questi racconti sono meglio scritti e più riusciti, qualcuno è meno avvincente ma penso valga la pena di leggere questo libro per un’onesta riflessione; è vero che è la stessa riflessione che da Niente di nuovo sul fronte occidentale continuiamo a fare, guerra dopo guerra, libro dopo libro. Ma se manca la speranza, almeno c’è la verità. E a volte, anche senza speranza, si continua a provare.

Chiudo con le parole che Dave Eggers usò per la prefazione di Yellow Birds di Kevin Powers, capolavoro sul conflitto bellico iracheno: “Probabilmente è il libro più triste che io abbia letto negli ultimi anni. Ma triste in modo importante. Dobbiamo essere tristi, profondamente tristi, per quel che abbiamo fatto in Iraq”.

Lorenza Inquisition

 

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Phil Klay – Fine missione #PhilKlay

Forse nessuno torna da una guerra. Forse anche il ritorno a casa, per chi è stato bravo o fortunato a sufficienza, non è altro che un cambiare fronte, l’ingaggio di una nuova battaglia; forse non è altro che l’inizio di una nuova missione. 

Soprattutto il Vietnam prima e poi l’Afghanistan e l’Iraq con le armi super – tecnologiche e il giornalismo embedded, hanno moltiplicato in noi la percezione e la vicinanza della guerra. Assaltati quotidianamente da reportage e videoracconti della cronaca bellica e politica, verrebbe voglia di spegnere la TV, chiudere i giornali, parlare d’altro. Ma di come vivono agiscono pensano e soprattutto subiscono individualmente ciò che fanno e ciò che subiscono i protagonisti attivi (i militari impegnati ) ancora troppo poco forse si parla. Abbiamo da tempo imparato da molti libri e film che da una guerra non si torna mai: e qui ce lo ribadisce molto chiaramente e benissimo il libro “Fine Missione” dell’ex marine Phil Klay, in Iraq nel 2008 – 2009. Il testo raccoglie una dozzina di racconti brevi e folgoranti per pulizia e precisione di scrittura, notevoli per la resa psicologica e la varietà dei temi che riesce a portare alla ribalta parlando dei marines sia impegnati nelle azioni di guerra, sia reduci in licenza o a fine missione. Racconti ovviamente duri e crudi, con il linguaggio pesante tipico dei militari ma con i sentimenti scoperti fino all’estrema conseguenza della perdita di ogni equilibrio emotivo e psicologico. Si oscilla fra orrore per la perdita dei compagni e l’ euforia per le uccisioni dei nemici, salvo poi capire che non esiste più niente dopo se non il proprio sprofondare nella perdita della capacità di relazione per arrivare al proprio “cuore di tenebra”.
Siamo insomma dalle parti di “American Sniper” del grande Clint Eastwood e dei film che raccontano l’impossibilità di stare al fronte senza sentire il profumo della caccia alla preda e dell’impossibilità di tornare e avere una vita normale.
I racconti sono densissimi e qualche volta costringono a consultare compulsivamente il glossario finale dedicato alle sigle con cui il corpo dei marines e l’amministrazione americana inventaria mezzi militari, azioni di guerra, ordigni, strutture militari,etc. E’ una piccola fatica ma che rende benissimo l’idea di una burocrazia che governa le proprie pedine sul campo come in un infinito gioco di ruolo dove perdono tutti, salvo quelli che naturalmente la guerra la dirigono da lontano. Notevole davvero, molto consigliato.

Renato Graziano

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