AWOL on the Appalachian Trail – David Miller

Day 35

Yesterday I met Hot Dawg floating down the trail after taking EIGHT vitamin-I pills to start his day. He carries Stubby Cat (his tail-less cat) on top of his backpack. The cat has 16 confirmed shelter mice kills.

(Ieri ho incontrato Hot Dog che fluttuava lungo in trail dopo aver preso OTTO pastiglie di ibuprofene per cominciare bene la giornata. Porta con sè in cima allo zaino Tozzogatto, il suo gatto senza coda, che ha un record personale confermato di 16 topi da rifugio uccisi).

hot

Un’altra storia di trail attraverso gli Stati Uniti, questa è sul secondo grande percorso a piedi noto come l’Appalachian Trail, che voi che siete gente di mondo avete già capito riguarda sempre lo scarpinare 4000 chilometri suppergiù MA dall’altra parte dell’America, dalla Georgia fino al Maine, lato Atlantico appunto.

I trail che attraversano gli STati Uniti da Sud a Nord sono tre, il PCT che ho letto nella storia di Wild (https://cinquantalibri.com/2015/08/14/wild-from-lost-to-found-on-the-pacific-crest-trail-cheryl-strayed-cherylstrayed-pct-wild/), l’Appalachian che riguarda il libro in questione e poi c’è quello centrale attraverso le Montagne Rocciose, ci informeremo. Parrà una scemenza ma a me sta cosa intrippa, anche solo il fatto che ci sono intere foreste vergini negli Stati Uniti che ti puoi attraversare a piedi per quattro o cinque mesi di fila e nessuno si sogna di dirti che di lì no non si passa e di là scusa è chiusa ci stanno costruendo abusivamente. Le stesse foreste dove vagavano i trapper e i Conquistadores, per dire. Pazzesco. Ma non divaghiamo.

Questa è la storia del percorso fatto da David Miller, nel 2005: è molto meno drammatico del libro della Strayed ma ha un suo perchè. La cultura di fare a piedi uno dei tre (o tutti e tre!) grandi percorsi suddetti è abbastanza diffusa negli Stati Uniti, forse perchè è innanzitutto una sfida con sè stessi. Non è proprio una gara, nessuno tiene i tempi, e in fondo non devi fare altro che camminare, e continuare a farlo, per quattro o cinque mesi. Quindi provano a cimentarsi nell’impresa persone di ogni tipo, anche se in genere per evidenti limiti di tempo e denaro di solito si riserva la decisione di fare il trail in un periodo della propria vita in cui non sei schiavo del lavoro o di altre responsabilità: per cui studenti universitari appena laureati, o pensionati (i pensionati americani, che razza). 

Quando David Miller intraprende il suo tru-hike (termine che si usa per indicare chi fa il percorso intero del trail) ha quarant’anni, tre bambine che spaziano dai 4 ai 9 anni e una moglie che invece di mandarlo a pigliattelo gli dice, non si sa perchè, Ok dai, fallo. Io sto a casa cinque mesi a tirar su le bambine e mandare avanti la casa, pago i conti e ti aggiorno il blog e ti spedisco la roba da mangiare e quant’altro ti può servire lungo la strada, e tu stai via a camminare pei boschi perchè vuoi vivere in saggezza e profondità e succhiare tutto il midollo dalla vita, perchè no, vai vai. E l’han fatto veramente. E vi dirò di più, il Miller ha pure lasciato il lavoro, perchè non gli davano l’aspettativa. Certo era il 2005, la crisi era ancora lontana e in fondo è un programmatore di computer, un mestiere che garantisce in genere occupazione. Tuttavia la decisione non è stata facile e neanche sensata, se vogliamo, ed è questo quello che mi è piaciuto di più di questa storia, al di là del fatto dell’impresa in sè: queste sono storie di sognatori, di gente che non si conforma, che sta fuori dal mondo per qualche mese senza troppo lamentarsi delle cose materiali che si è persa e torna felicissima per aver trovato molto altro. Durante il suo viaggio David incontra persone di ogni tipo che si cimentano nello stesso sforzo, alcuni solo per qualche tratto, altri che tentano come lui la traversata intera: coppie sposate e fidanzati, uomini e donne che fanno il percorso da soli, studenti e pensionati come dicevamo, ma anche altri uomini della sua età che hanno lasciato il lavoro e ci provano.

Come libro in sè, bisogna un po’ prenderlo come viene: Miller non è uno scrittore di mestiere e si vede (non è di bruttezza offensiva, solo niente di che) e il libro è alla fine il diario di un viaggio. Ci sono quindi parti descrittive sul genere di tappa che sta per affrontare nella giornata (quanta e quale pendenza, tipo di terreno, distanza percorsa rispetto alle previsioni di partenza), dei luoghi dove dorme e della storia di quel tratto di trail. Però ci sono anche vividi ricordi di incontri con topi e orsi e serpenti e alci, di mangiate pantagrueliche e di incidenti di percorso, di falò e serate alcoliche con altri hikers, e qualche storia di umana gentilezza.

Gli hikers attraversano durante il loro viaggio infiniti paesini e cittadine; il percorso è sui monti e nei boschi, ovviamente, ma in certi incroci è possibile, camminando qualche miglio, spostarsi verso le strade statali, chiedere un passaggio in autostop e raggiungere così qualche centro abituato. Questo è necessario per una serie di motivi: rimpinguare i rifornimenti di cibo, farsi visitare da un medico per qualche necessità, telefonare, o perchè no mangiare un hamburger e farsi una doccia calda una volta la settimana, prendersi semplicemente un giorno di riposo ogni tanto se la stanchezza si fa sentire troppo. Le popolazioni di queste cittadine, e stiamo parlando di un percorso lungo 4000 chilometri, sono use ad aiutare in ogni modo possibile chi fa il trail: mettono a disposizione la macchina per un passaggio al ritorno, alcuni adibiscono cantine o seminterrati a uso dormitorio gratuito degli attraversatori, altri cucinano colazioni o offrono bevande. Certo alcuni centri vivono di queste piccole attività, ergendo ostelli o camping, ma il numero infinito di piccole gentilezze e cortesie riportato nel racconto di questi mesi di viaggio è davvero rassicurante, così come il messaggio di chi è poi arrivato alla fine del tru-hike: Era il mio sogno, e l’ho fatto! 

Lorenza Inquisition

Awol-the-AT-Guide

 

Wild – From lost to found on the Pacific Crest Trail – Cheryl Strayed #CherylStrayed #PCT #Wild

As I spoke, the doubts I had about myself on the trail fell away for whole minutes at a time and I forgot all about being a big fat idiot. Basking in the attention of the people who gathered around me, I didn’t just feel like a backpaking expert. I felt like a hard-ass motherfucking Amazonian queen.

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Nel 1991, a soli 24 anni, Cheryl Strayed perde la madre, alla quale è attaccatissima, per un tumore penoso e fulmineo. Il dolore è per lei incolmabile, così immenso da trascinare con sè altre devastazioni: Cheryl perde la famiglia che si sfascia, i fratelli e il patrigno isolati e sempre più lontani l’uno dall’altro. Perde il marito, sposato appena ventenne sulla scia di un innamoramento a prima vista, dietro una schiera di uomini senza volto che le fanno dimenticare per un momento il proprio lutto. Perde sè stessa, in una spirale autodistruttiva di droghe sempre più pesanti. Perde quasi la vita, la ragione, il desiderio di sopravvivere. Eppure, Cheryl è fatta di un’altra pasta.

Dopo quattro lunghi anni di angoscia e disperazione, un giorno, per caso, Cheryl vede su uno scaffale di una stazione di servizio un libro, la guida al Pacific Crest Trail, il Sentiero delle Creste del Pacifico, un percorso escursionistico da percorrere a piedi, lungo più di quattromila chilometri che parte dalla bassa California per risalire tutta la costa degli Stati Uniti Occidentali su su verso Nord passando lo Stato di Washington e l’Oregon per arrivare fino in Canada. Cheryl non sa perchè sia attratta da quel libro, non è appassionata di trekking anche se ha ricordi di campeggi e vita all’aperto di quando era bambina. Ma qualcosa in quel volume, in quell’idea di viaggio, la chiama a sè. Lo compra, e qualche settimana dopo, nel momento più basso della propria devastazione, dopo aver abortito un bambino del quale ha solo una vaga idea di chi potrebbe essere il padre, decide che lei farà quel trail, il mitico, devastante, impossibile PCT. Da sola, a 28 anni, senza nessuna preparazione fisica e con solo una minima nozione di quello che deve essere la preparazione materiale (studio delle mappe, attrezzatura varia, rifornimenti) per un’impresa del genere, la troviamo all’inizio del libro mentre passa la sua ultima notte in un letto di motel lungo il deserto del Mohave prima di cominciare il suo cammino. Fissa l’enorme zaino che si porterà dietro per i tre mesi stimati per compiere la traversata, e si chiede cosa stia facendo, esattamente. Non sa bene dove la porterà questo viaggio, è un lungo cammino pieno di promesse e paura, con una sola certezza: è l’unica strada che ha trovato per tornare a essere la donna che voleva essere da bambina, la donna che sua madre avrebbe voluto fosse, e la percorrerà tutta, fino in fondo, perchè l’alternativa è perdersi per sempre, e questo fa più paura di tutto, della stanchezza, dei pericoli, dell’ignoto.

Scrive bene Cheryl, e ci tiene con sè per tutto il percorso, una strada lunga, dolorosa, infinita. E’ vero, in fondo si tratta solo di camminare. Ma come chiunque abbia fatto un trail di resistenza sa, la vera sfida per superare questa prova è mentale, non fisica. Tuttavia è proprio il fisico, all’inizio, che dolorosamente mette alla prova la resistenza umana di Cheryl: il trail inizia nel deserto del Mohave, chilometri e chilometri di cammino sotto il sole cocente, con lo zaino gravato dalla scorta di acqua che è necessario portarsi dietro perchè la prima sorgente utile è a giorni di distanza. Parte male Cheryl, non si è preparata adeguatamente: non ha provato bene gli stivali e i piedi la tormentano, lo zaino è troppo pesante, ha calcolato male le miglia di percorrenza giornaliere, non ha mai usato il fornelletto da campo e si accorge troppo tardi di non avere il combustibile adatto. Non ha che una vaga idea della direzione, non ha messo da parte abbastanza soldi per le emergenze, non si è preparata materialmente in un’infinità di modi: ma non molla. Passo dopo passo, Cheryl cammina, ripetendosi come un mantra Non ho paura, non ho paura, non ho paura per cacciare quell’altra vocina che a volte è forte come un tuono Non ce la farai, non puoi farcela, non è possibile che tu ce la faccia.

Cammina  e continuerà a camminare perchè non può fare altro, perchè sì, è dura, ma anche vivere senza la madre è dura, anche aver buttato nel cesso il matrimonio con un uomo di cui era sinceramente innamorata è dura, queste sono cose ancora più difficili e bastarde di un percorso trail, pur se faticoso da morire. E riuscire ad andare avanti le dà quel minimo di pace e senso di completezza che alla fine di ogni giorno le mancavano da anni, e Cheryl continua. 

La letteratura sulla redenzione personale raggiunta attraverso imprese sportive o fisiche di vario tipo è infinita, e ognuno può identificarsi con le varie storie per i più disparati motivi. A me questo libro è piaciuto perchè il personaggio è una donna che dopo aver preso una serie di bastonate dalla vita, tira fuori due palle così e si fa a piedi 4000 chilometri alla faccia della sua inadeguatezza morale, pratica e fisica. A me le storie di donne così fanno sognare, sono i miei idoli assoluti. Sono quelle che hanno vissuto l’inferno come tutti, peggio di tutti a volte, eppure zitte e mute (e zaino in spalla) con anche una certa grazia e alla faccia del sesso debole prendono l’inferno per gli attributi e se lo attraversano, e andrà come andrà, ma per lo meno non sto qua a piangere che sono bionda e carina e qualcuno mi aiuterà. No.

Tu, ti devi aiutare.

Non tutti si identificheranno con lei, che è a volte antipatica, ma mai arrogante, e che si vergogna sinceramente degli sbagli che fa. Però penso che molti possano leggere la sua storia capendo come fosse presa tra la nostaglia della vecchia vita che non tornerà più, e la nostalgia di quello che la vita avrebbe potuto essere, che non sarà mai. E finirà, come tutti noi, a fare il meglio che può, senza necessariamente essere orgogliosa o umiliata da quello che è diventata alla fine del cammino.

Questo, per il libro. E’ uscito l’anno scorso un film con Reese Witherspoon, che ho visto dopo il libro. Il libro è meglio (ma va? ma dai), molto meglio. Non è un brutto film, anzi, ma il libro è molto molto meglio. Soprattutto il film, che è sceneggiato da Nick Hornby quindi mi spiace dirlo, non riesce a veicolare due fondamentali aspetti: il primo, la comunione con la natura, un tema che necessariamente in un percorso così lungo a piedi per parchi nazionali deve essere presente. Nel romanzo, il co-protagonista di Cheryl è il PCT, la strada, le sue valli, le montagne e i laghi, mentre nel film è al massimo un comprimario, ma non è possibile che i paesaggi non siano neanche contemplati una volta, che i tramonti e le albe non siano presenti, che manchi l’ampio respiro del vasto mondo di foreste pluviali e boschi incontaminati nel quale Cheryl vive per quasi 100 giorni. In questo un film come Into the wild, invece, è perfetto.

L’altro aspetto diludendo del film è il lavorìo mentale di Cheryl, i suoi dubbi, le paure e le incertezze, tutto passa fumè in una serie di flashback che rispetto al libro trovo veramente poveri.

quindi, se avete voglia di leggervi un libro un po’ lungo, non perfetto, ma con un bel messaggio e una grande storia, uscite e buttatevi sul PCT. Prima però imparate a usare il fornelletto neh.

Io, per me gli do’ un treemmezzo su 5 stelle.

E inoltre, non ve lo dico ma ve lo dico, a me sto libro m’ha messo idee. Sapetevevelo.

Lorenza Inquisition