“L’iscrizione forgiata in ferro, papà, è più piccola di come la immaginavo;un cancello con le sbarre, come quello di qualunque casa di campagna”.
“Le lettere mai arrivate” (Las cartas que no llegaron), uscito nel 2000 e tradotto e pubblicato pochi mesi fa dalla Nova Delphi Libri, è un’opera dello scrittore e poeta uruguaiano Mauricio Rosencof, dove l’autore, ex guerrigliero nato da genitori ebrei polacchi, per resistere alla dura prigionia impostagli dalla dittatura militare (1973-1984), scrive una lunga serie di lettere al padre, per mantenere vivi certi ricordi, per cercare di sopravvivere in una condizione così drammatica.
La chiave di questo libro è la parola scritta. Attesa dal padre dell’autore sotto forma di lettere, quando lui era bambino, dei parenti rimasti in Polonia che scrivevano della paura della deportazione. Ingannatrice come quelle poste all’ingresso di Auschwitz: “Il lavoro rende liberi”. O qualcosa che aiuta a ritrovare le radici, salva i sogni e la speranza, quando è l’autore che, imprigionato dal regime dittatoriale uruguayano, ricorda suo padre che aspettava quelle lettere quarant’anni prima, sua madre che non sapeva leggere ma sapeva sempre far domande.
E’ la parola che apre le porte a una realtà immaginata ma non per questo meno vera.
“Sogno una tazza di tè, caldo, fumante, ambrato, che ti dà tepore alle mani e ti scalda il ventre, sorso dopo sorso… Perchè la fantasia, sai, è l’unica caratteristica umana non soggetta alla meschinità del reale”.
Lo scrive il nonno al padre dell’autore in viaggio verso Auschwitz.
Ed infine parola che è memoria per resistere alla morte. Perchè attraverso i ricordi, quando il presente è così terribile che non si può pensare a un futuro, si vive.
Un libro che consiglio per la sua rara compostezza emotiva.
“E oggi sono qui, babbo , e faccio il giro del mondo con tre passi corti, dietro front, tre passi corti, e di questo non te ne parlo. Perchè dovrei? Ma il mio mondo è questo di due metri per uno, senza luce, senza libro, senza volto, senza sole, senza acqua, senza senza e ti scrivo”.
Egle Spanò