Il fumo di Birkenau – Liana Millu #LianaMillu #Olocausto

Il fumo di Birkenau – Liana Millu

Editore: Giuntina
Edizione: 13
Anno edizione: 2008

Il fumo di Birkenau di Liana Millu è fra le più intense testimonianze europee sul Lager femminile di Auschwitz-Birkenau: certamente la più toccante fra le testimonianze italiane. Consta di sei racconti, che tutti si snodano intorno agli aspetti più specificamente femminili della vita minimale e disperata delle prigioniere. La loro condizione era assai peggiore di quella degli uomini, e ciò per vari motivi: la minore resistenza fisica di fronte a lavori più pesanti e umilianti di quelli inflitti agli uomini; il tormento degli affetti familiari; la presenza ossessiva dei crematori, le cui ciminiere, situate nel bel mezzo del campo femminile, non eludibili, non negabili, corrompono col loro fumo empio i giorni e le notti, i momenti di tregua e di illusione, i sogni e le timide speranze. (Dalla prefazione di Primo Levi)

Di solito non scrivo, anche se vi leggo sempre. Faccio un’eccezione per questo libro, che ho appena finito e che merita davvero.

Il fumo di Birkenau è il primo libro di Liana Millu, pubblicato nel 1947 poco dopo il suo ritorno dalla prigionia nel campo di concentramento nazista di Auschwitz – Birkenau. Uscito nello stesso anno di Se questo è un uomo di Primo Levi, non ebbe inizialmente un grande successo di pubblico. Riedito più volte negli anni successivi, è oggi il suo libro più conosciuto e più tradotto. Liana Millu, italiana, ebrea, fu catturata nel ’44 dai tedeschi in Toscana, dov’era staffetta della Resistenza, e deportata ad Auschwitz-Birkenau. Riuscì a sopravvivere all’allucinante esperienza e a tornare in Italia al termine di un avventuroso viaggio che racconterà, con grande forza narrativa, ne «I ponti di Schwerin» (selezione Premio Viareggio), un’altra delle sue opere di successo.

Il fumo di Birkenau racchiude sei storie vere di vita vissuta, protagoniste sei donne, ambientate nel campo di concentramento dov’era Liana durante la Seconda guerra mondiale, e raccontano la vita quotidiana nell’orrore del campo di concentramento.

Più di dieci anni fa, la mia prof d’inglese ci fece leggere uno dei sei racconti, e da allora ho sempre voluto leggere gli altri. Avevo letto e sentito solo storie al maschile, una su tutte Se questo è un uomo, e volevo conoscere la vita nei campi delle prigioniere femmine. Però un po’ per la difficoltà di trovarne una copia (per un periodo il libro è stato fuori catalogo, ora dovrebbe essere disponibile quanto meno online), un po’ per la sensazione di non essere pronta, ho aspettato finora. Finalmente mi sono sentita di affrontarli.
La prefazione di Primo Levi dice già tutto, non credo di poter aggiungere molto altro io. Sono racconti asciutti, ma non crudi. Dipingono un mondo diverso, forse più “umano”, rispetto alle testimonianze maschili, e si concentrano più sui rapporti personali piuttosto che sulle condizioni di vita nel campo. Le protagoniste di questi racconti sono ancora ferocemente donne, madri, sorelle, mogli. Liana Millu le fa rivivere tutte sotto i nostri occhi, ne racconta le vite spezzate e assurde facendocele conoscere intimamente. Sono persone, non personaggi, affacciate sull’indicibile. Solo peccato che, essendo racconti brevi, non includano una parte sulla fine della guerra e il ritorno.
Insomma, uno sguardo diverso, una voce limpida. Non saprei come altro dirlo. Io ve lo consiglio.

«Fa’, o Signore,
che io non divenga fumo.
Fumo di Birkenau,
fumo in questo cielo straniero
ma riposare io possa laggiù
nel mio piccolo cimitero. […]»
(L. Millu)

Silvia Scri

PS. Sul racconto femminile dei campi di sterminio, segnalo anche questo libro del 2004 in cui la scrittrice Daniela Padoan intervista tre superstiti: la nostra amata senatrice Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi: Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz

Il titolo, dai versi di Primo Levi, dice tutto: Considerate se questa è una donna / Senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno.

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Radici – Alex Haley #Radici #AlexHaley #Roots #recensione

Era l’inizio della primavera dell’anno 1750 quando nacque il primo figlio a Omoro e Binta Kinte, nel villaggio di Juffure, a quattro giorni di viaggio dalla costa risalendo il fiume Gambia, nell’Africa Occidentale. Appena uscito scalciante dal giovane corpo robusto di Binta, nero-ebano come la madre e screziato del suo sangue, il neonato si mise a strillare a squarciagola. Sua nonna, Yaisa, e l’altra levatrice, la decrepita Nyo Boto, scoppiarono a ridere di gioia quando videro che era un maschio, perché ciò era di buon auspicio per tutto il parentado.

Radici è un romanzo del 1976 di Alex Haley, che decise di scrivere le storie che la sua famiglia tramandava da varie generazioni circa le proprie origini africane. In particolare, il suo interesse ebbe origine dai racconti della nonna materna, il cui padre era stato emancipato dalla schiavitù nel 1865, il quale si ricordava di una bisnonna, figlia di uno schiavo portato in America da ragazzo su una nave negriera. Radici racconta principalmente la vita di Kunta Kinte, un adolescente africano che intorno al 1770 viene rapito dai negrieri dal suo villaggio natale in Gambia, trasportato tra indicibili violenze in Nord America e qui venduto come schiavo; e a seguire, per i duecento anni successivi, tutta la storia dei suoi discendenti, fino alla famiglia dello scrittore negli anni 70. Radici serie tv è uno dei primi ricordi che ho: mia madre che mi fa una puntura nel sederino perchè avevo una brutta bronchite, e sullo schermo Kunta corre nella piantagione cercando di sfuggire al suo destino. Kunta che poi ritroverò vent’anni dopo sull’Enterprise al fianco di Picard, devo dire spiazzante la visione di Geordi LaForge senza catene ma con phaser. Ma torniamo a noi.

Alex Haley è uno dei tre autori afro-americani più letti di sempre; la sua Autobiografia di Malcom X, della quale è co-autore insieme al leader dei diritti per i neri americani, vendette sei milioni di copie nei primi dieci anni di pubblicazione, e Radici raggiunse la stessa cifra di vendita nel solo primo anno di uscita. Tuttavia, Radici è un libro che non viene mai citato nel canone della letteratura afro americana, la sua reputazione per sempre corrotta da una serie di ambiguità e controversie legali.

Prima di parlare di questa disputa, vorrei innanzitutto dire che è un libro appassionante, coinvolgente, impossibile da lasciare a metà. Il ritmo si mantiene per gran parte delle quasi 500 pagine, i personaggi principali son ben scritti, lo stile è semplice ma efficace, impossibile non identificarsi con i protagonisti e le loro vicissitudini. Si attraversano quasi duecento anni di storia americana e delle vicine isole coloniali come Haiti, dalla guerra di Indipendenza americana alle prime ribellioni degli schiavi, dalla rivoluzione industriale con l’avvento delle macchine tessili alla guerra di secessione, dall’assassinio di Lincoln fino all’abolizionismo, il tutto visto dai quartieri degli schiavi, muti e inespressivi di fronte ai padroni, pronti a raccogliere ed elaborare qualsiasi informazione dal mondo esterno non appena il proprietario si allontanava.

Sette generazioni si ritrovano in queste pagine, racconto dettagliato di una delle più deprecabili azioni compiute dall’uomo, un quadro desolante fatto di dolore, di violenze, di milioni di persone disumanizzate, ridotte al rango di oggetti o, per i padroni più “illuminati”, di bestiame utile alla fattoria, un quadro orrorifico in cui c’è chi ‒ pur divenuto merce ‒ ha avuto la forza di conservare la dignità, di attendere e di sperare in un futuro migliore, almeno per i figli. E’ un romanzo intenso, commovente, toccante nel quale si muovono tragedia, tradizioni, magia, dolore: tutti elementi che non lasciano tregua nella lettura, sempre avvincente e quasi senza cali di tensione.

Allora il problema qual è? Innanzitutto, è un problema di sfiducia. Haley negli ultimi capitoli del romanzo parla di come sia giunto alla decisione di scrivere la storia della propria famiglia, dedicandosi per anni e anni alla ricerca di una traccia tangibile del proprio antenato Kunta Kinte; racconta dei suoi viaggi in Europa e in Africa, delle ore passate negli archivi notarili e nelle biblioteche di tutto il Paese, delle lettere scritte a famosi linguisti specializzati in lingue africane, fino ad arrivare al punto focale della vicenda: in quello che descrive come il villaggio natale del suo antenato egli, un nero americano disceso direttamente da duecento anni di vite nate da vicende assurde e violente, incontra un griot, un cantastorie, personaggio depositario di tutta la storia orale locale, che conferma in modo straordinario, in un momento topico, che sì, Kunta Kinte viveva in quel villaggio duecento anni prima, e rapito dai bianchi, fu pianto e dato per morto dalla famiglia e dall’intero villaggio, villaggio che si stringe in un toccante abbraccio attorno al discendente diretto di quel figlio perduto. E’ impossibile rimanere insensibili leggendo queste righe, è il culmine di 500 pagine senza umana pietà che improvvisamente prendono un significato, un senso importante: Kunta Kinte non è mai andato via davvero, duecento anni non sono stati davvero perduti.

L’impatto che ebbe questo libro, con questo finale, in America, fu incredibilmente potente: un’intera generazione di uomini e donne di colore americani prese a interessarsi alla genealogia e alla storiografia, nella speranza assurda e irrinunciabile che anche loro, tutti loro, potessero un giorno trovare un cenno tangibile delle proprie Radici, appunto.

Il libro ebbe un enorme successo editoriale, anche unito alla popolarità della serie televisiva che ne fu tratta nel 1977, nominata per una quarantina di Emmy Award, vincitrice di nove, e di un Golden Globe; il romanzo dominò per 11 mesi la classifica dei best sellers del New York Times, comprese 22 settimane come numero uno in classifica, e vendette più di un milione e mezzo di copie nei primi cinque mesi di pubblicazione. Haley divenne una figura accademica di spicco, un serio ricercatore, un divulgatore eccellente assurto a guida patriarcale di un’etnia, e come tale meritevole di un premio Pulitzer e di guadagni miliardari. Il successo di Radici risiedeva proprio nella sua -presunta, e provata- storicità: questo è quello che è successo, questa è la storia della mia famiglia, io, Alex Haley, sono riuscito per primo a riunire i rami di una pianta che l’oceano sembrava aver smembrato per sempre.

Ma, naturalmente, se ti poni come storiografo e archivista, e presenti il tuo romanzo come opera storica e non di fiction, altri storici e archivisti vorranno comprovare quel che tu dici. E innumerevoli furono le verifiche accademiche presentate a confutare quella che si rivelò, infine, un’invenzione creativa: gli esiti delle ricerche di Haley negli archivi notarili del Paese, tese a cercare tracce dei nomi dei suoi antenati, erano a dir poco approssimative, gli atti legali da lui prodotti storicamente non corretti, e infine, il famoso griot, si rivelò un semplice assecondatore. Kunta Kinte non è il protagonista reale di una storia vissuta, testimone di un’epopea dell’oppressione comune a tutti gli americani di origine africana; è un personaggio da romanzo, pur se creato con buone intenzioni e forse con un fine onorevole: Radici, si giustificò lo scrittore, doveva divenire la saga simbolica degli americani di discendenza africana che sono tutti, senza eccezione, i semi di un uomo come Kunta che nacque e crebbe in qualche villaggio africano negro, un uomo che fu catturato e incatenato in una di quelle navi di schiavisti.

Se Haley avesse subito presentato Radici per quello che è, un romanzo basato su qualche fatto di verità storica, valido nella sua narrazione essenziale ma sostanzialmente supportato dall’immaginazione, non ci sarebbero stati problemi. Ma l’autore produsse appendici e rilasciò interviste in cui spiegava quanto avesse ricercato in biblioteche di tutto il mondo prove che corroborassero le storie che la sua famiglia tramandava oralmente, poichè voleva che tutti fossero convinti della veridicità della sua opera. Inoltre, la saga del libro Radici subì due processi per plagio, uno dei due perso dall’autore, condannato per aver copiato circa ottanta passaggi dal romanzo di Harold Courlander L’Africano. Haley se la cavò con una multa di 650 mila dollari: cifra enorme che gli permetteva però di salvare la sua reputazione e di continuare a vendere milioni di copie del suo bestseller.

Che continua a piacere alla massa del grande pubblico, e che, ribadisco, è un buon libro. Ma il suo autore fu per sempre escluso dai grandi autori afro americani, visto con sospetto dagli esponenti della letteratura accademica, perchè il suo è un romanzo troppo poco letterario (e possibilmente troppo popolare), ed egli stesso un autore non abbastanza credibile come storico per essere considerato il precursore di tutti quegli studiosi di storia africano-americana che con il suo libro trovarono tuttavia un primo avvio per le loro carriere e ricerche. Ed è per questo che nella Norton Anthology of African-American Literature, manca e sempre mancherà quello che è probabilmente, nel bene e nel male, il più seminale di tutti gli autori neri americani.

Radici è un libro che consiglio se interessano il periodo storico e l’argomento trattato, perchè è coinvolgente e ha contribuito a dare un spinta essenziale alla letteratura sullo schiavismo in America. Va tenuto conto che si basa su una premessa falsata dall’autore, bisogna approcciarlo come un semplice romanzo di fiction, niente di più nè di meno. Segnalo che per incomprensibili motivi in Italia non ho quasi trovato traccia della diatriba su Haley, i suoi processi per plagio e le prove che vari studiosi hanno presentato contro la sua mistificazione romanzesca del proprio lavoro di storico. In America la letteratura sull’argomento è vasta, e non è necessario essere storiografi impegnati per imbattersi in qualche segnalazione, basta iniziare a leggere Wikipedia. La parte italiana di Wikipedia si ferma a metà di quella inglese, tralasciando tutto il processo di plagio e accuse di infondatezza. Non è che sia questo gran problema, in fondo, ma qualsiasi recensione da Anobii ad Amazon esalta questo romanzo come una grande opera di verità, e la cosa è abbastanza sconfortante.

«Uno schiavo non si compra, si crea».

Lorenza Inquisition