Il fotografo di Auschwitz – Luca Crippa/ Maurizio Onnis #Auschwitz #Olocausto #memoria

Il fotografo di Auschwitz, La storia vera di Wilhelm Brasse

Editore PIEMME

 

 

Sulla copertina di questo romanzo c’è il volto di una ragazzina, bello, puro, così adulto in una persona così giovane. Si chiamava Czeslawa Kwoka, era polacca ed è morta a 15 anni, nel 1943, ad Auschwitz. Se i suoi occhi, e migliaia di altri, continuano a guardarci, muti, silenzioso monito della loro esistenza, se continuano a testimoniare, negli anni, la loro indescrivibile sofferenza, è anche grazie al lavoro svolto dal loro fotografo. Si chiamava Wilhelm Brasse. A 23 anni, nel 1940, era finito nel lager di Auschwitz. Pur essendo di origine austriaca da parte di padre, aveva rifiutato di arruolarsi nella Wehrmacht; la sua patria era la Polonia e non intendeva diventare complice degli aguzzini dei suoi connazionali.

Una scelta coraggiosa, che pagò cara: ad Auschwitz, nell’inferno, riuscì a sopravvivere per cinque lunghi anni grazie al proprio lavoro: era un bravo fotografo, aveva imparato il mestiere da uno zio, e ai nazisti era utile. Perché la macchina di sterminio, nella sua follia, adorava schedare le sue vittime: uno scatto, e poi via nelle camere a gas. Nel piccolo studio fotografico di Wilhelm all’interno del lager sfilano oltre 50 mila persone. Ebrei, zingari, polacchi. Uomini, donne e bambini. Esseri umani i cui sguardi raccontano il dolore, la rassegnazione, la ricerca di un perché a una mostruosità che esce da qualsiasi logica.

Brasse, come molti altri uomini, decise di combattere non solo per sè stesso, ma per i propri ideali e per la sua gente. Dal mirino della propria Zeiss vide e visse orrori inenarrabili che hanno messo fine per sempre alla sua carriera impedendogli di accostarsi con serenità alla macchina fotografica. Rischiando la propria vita è riuscito a salvare la testimonianza delle atrocità perpetrate per anni ad opera di Mengel e Clauberg, portandole al mondo con le sue foto e curando in prima persona il Museo alla Memoria di Auschwitz. Luca Crippa e Maurizio Onnis sono gli autori di questo romanzo, una bella e dolorosa ricostruzione degli anni trascorsi da Wilhelm Brasse nel campo di sterminio. E’ un romanzo, ma nulla è lasciato alla fantasia. I fatti salienti del libro sono tutti basati su documenti storici e sulla testimonianza dello stesso Brasse, morto nel 2012 a 94 anni.
Per questo genere di libri non esiste la classificazione, la stellina, il “mi piace” o meno. Questo genere di libri, semplicemente, va letto e divulgato.

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Le lettere mai arrivate – Mauricio Rosencof #recensione

“L’iscrizione forgiata in ferro, papà, è più piccola di come la immaginavo;
un cancello con le sbarre, come quello di qualunque casa di campagna”.

“Le lettere mai arrivate” (Las cartas que no llegaron), uscito nel 2000 e tradotto e pubblicato pochi mesi fa dalla Nova Delphi Libri, è un’opera dello scrittore e poeta uruguaiano Mauricio Rosencof, dove l’autore, ex guerrigliero nato da genitori ebrei polacchi, per resistere alla dura prigionia impostagli dalla dittatura militare (1973-1984), scrive una lunga serie di lettere al padre, per mantenere vivi certi ricordi, per cercare di sopravvivere in una condizione così drammatica.
La chiave di questo libro è la parola scritta. Attesa dal padre dell’autore sotto forma di lettere, quando lui era bambino, dei parenti rimasti in Polonia che scrivevano della paura della deportazione. Ingannatrice come quelle poste all’ingresso di Auschwitz: “Il lavoro rende liberi”. O qualcosa che aiuta a ritrovare le radici, salva i sogni e la speranza, quando è l’autore che, imprigionato dal regime dittatoriale uruguayano, ricorda suo padre che aspettava quelle lettere quarant’anni prima, sua madre che non sapeva leggere ma sapeva sempre far domande.
E’ la parola che apre le porte a una realtà immaginata ma non per questo meno vera.
“Sogno una tazza di tè, caldo, fumante, ambrato, che ti dà tepore alle mani e ti scalda il ventre, sorso dopo sorso… Perchè la fantasia, sai, è l’unica caratteristica umana non soggetta alla meschinità del reale”.
Lo scrive il nonno al padre dell’autore in viaggio verso Auschwitz.
Ed infine parola che è memoria per resistere alla morte. Perchè attraverso i ricordi, quando il presente è così terribile che non si può pensare a un futuro, si vive.
Un libro che consiglio per la sua rara compostezza emotiva.

“E oggi sono qui, babbo , e faccio il giro del mondo con tre passi corti, dietro front, tre passi corti, e di questo non te ne parlo. Perchè dovrei? Ma il mio mondo è questo di due metri per uno, senza luce, senza libro, senza volto, senza sole, senza acqua, senza senza e ti scrivo”.

Egle Spanò