“eppure, si era aperto un varco. Da quella stanza immaginaria e dalle sue porte era già cominciata una partenogenesi vertiginosa di possibilità, direzioni, eventi, mondi.”
Contaminando la fiction con elementi di memoir e ricostruzione storica (pur restando fiction a tutti gli effetti), Santoni si produce in un affresco della stagione dei giochi di ruolo in Italia. Lo fa dall’interno, innestando il punto di vista su un dungeon master tanto entusiasta all’epoca dei fatti narrati quanto disincantato – quasi arreso – nel presente, il presente (questo presente) da cui racconta, rivolgendo a se stesso una seconda persona singolare che sembra voler prendere le distanze, misurarsi. Rispetto al precedente Muro di casse, che similmente gettava luce su una cultura altra come i rave, qui non si respira un senso di epica residua. Sembra quasi restio, Santoni, ad addentrarsi nella dinamica del gioco, a descrivere il giocare, come se volesse preservarlo nel suo status di mistero insondabile, indescrivibile: “il gioco si gioca”, come dice uno dei protagonisti. Il risultato è un romanzo breve e crepuscolare, un quasi romanzo di formazione attraversato da un senso di rimpianto sfilacciato, condotto col tono di chi accetta il portato di un’esperienza marginale seppure fiera e gravida di conseguenze. Il gioco di ruolo è una vena che pulsa con intensità sempre più definita e solida, unendo i protagonisti in un’accolita scombinata ma fervente, finché – nelle pagine risolutive – il bilancio non può che sottolineare il paradosso: mentre la realtà dissolve senso, il gioco lo coagula, diventa un senso forte, persino IL senso per una generazione che ha smarrito l’appartenenza al reale organizzatosi in sistema sociale.
“il mondo di Dungeons & Dragons era un universo di folli architetti del sotterraneo: perché si scavava così tanto? Ovunque un campo ctonio speculare al mondo e altrettanto selvaggio; ovunque passaggi, porte, sale buie da rischiarare con torce o incantesimi… Si torna al dungeon perché è il luogo del subconscio. Di più: perché è il subconscio, dove il dettaglio si scioglie in archetipo e il tempo si riorganizza a sistema di scelte.”
Come in Muro di casse, le pagine che sembrano sublimare l’operazione lo fanno svoltando in direzione road story: se in quello era un febbricitante e persino eroico viaggio in una ex-Jugoslavia coi proiettili che ancora ronzavano come insetti assassini nella notte, in La stanza profonda è una peregrinazione negli States sulle tracce dei padri fondatori dei rule games, tra apparizioni pseudo-fantasmatiche e un frammento (l’installazione Prada Marfa degli artisti danesi Michael Elmgreen e Ingar Dragset, sulla route 90) preso in prestito dal bellissimo Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel. Nel complesso è una lettura godibile, cui forse avrebbe giovato un tono più acceso (che non difettava al predecessore) ma che rappresenta comunque una importante conferma: il romanzo è un ottimo mezzo di indagine riflessiva quando deve trattare argomenti sfuggiti (più per rarefazione che per complessità) alla dimensione del saggio o del reportage, e Santoni lo sta padroneggiando con abilità.
“Quando poi, dieci o quindici anni dopo, realizzatasi l’egemonia dell’immaginario fantasy, la ragazza a suo tempo sedotta solo a prezzo di segretezza circa quell’insana passione per draghi, chierici e guerrieri, la menerà con Game of thrones o sfoggerà un tatuaggio in elfico (in Sindarin! Mi Sandarin, nan Eru!), saggio sarà non cedere alla tentazione del “te l’avevo detto”: il giusto gode, anzi, di aver avuto ragione da prima”.
Stefano Solventi
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