«Questo bellissimo romanzo possiede il dono della pietas. Racconta delle vite minori senza giudicarle e senza facili consolazioni: l’amore e la resistenza che le animano sono consegnati, intatti e luminosi, ai lettori.» – Giorgio Fontana
Fumo e polvere. Serve aprire le finestre dopo aver chiuso il nuovo libro di Alberto Schiavone. Si respira a fatica in questa storia. Manca l’aria, ma non manca la speranza…
“Ogni spazio felice” è un libro maturo, un romanzo che contribuisce a dare ossigeno alla nuova narrativa italiana. Schiavone racconta una vicenda che ha il sapore di un rinnovato neo-realismo. Chi ha visto in questo libro un modo di raccontare “alla maniera dei Dardenne” ci ha visto giusto. I due registi di origine belga sono soliti produrre un cinema che è ancora più distaccati del cinema francese (e di quello “impegnato” all’italiana) e il loro sguardo non solo racconta e non giudica, ma mostra… mette in mostra e fa vedere quella che è la quotidianità, senza alcuno sfondo pre-stabilito, senza nessuna musica e senza nessuna lettura sociologica… tanto meno ha la pretesa di essere e di fornire una lettura sociologica. Schiavone ha cercato e voluto questo distacco narrativo nei suoi libri. Spesso mi ha rimproverato, con il suo stile educato, di andare a cercare un oltre che, in realtà, lui non vuole e non voleva… ho imparato la lezione e questa volta sono rimasto lì dove Schiavone ci porta, lì dove vuole che noi lettori (re)stiamo.
I greci erano profondi perchè sapevano stare sulla superficie. Guardare e guardarsi attorno, alla superficie, lì dove siamo. Leggendo questa storia vengono alla mente i palazzi che si trovano accanto alle grandi vie di comunicazione di Milano, quella Milano “così grande da impazzire” (come canta Guccini). Chi abita quelle case, quegli alveari, quelle luci tutte in fila, quelle finestre che guardano e spiano il traffico, costante, che scorre ai loro piedi. Non saranno di certo tutti milanesi che bevono quello che la loro città, per statuto, porta a bere. La Milano da bere non coincide con la Milano che beve per affogare una quotidianità che è “sorella sconfitta”, alla maniera cantata da Massimo Zamboni. In quelle luci, in quelle case, dietro a quelle finestre ci sono le storie di Schiavone.
Marito e moglie, dinamiche famigliari, questioni di amori che si consumano e si lasciano consumare; una storia che puzza di fumo, di chiuso e di aria gravida di polvere. I muri sono gialli, i mobili sono grigi, le stoffe del divano sono spente. Manca l’aria fresca, si respira a fatica. I dialoghi sono rarefatti, asciutti come quando estrai una sigaretta da un pacchetto nuovo, appena aperto. Le parole si attaccano alle labbra. Schiavone usa i dialoghi per mostrare un mondo. L’ottima fattura di questi dialoghi asciutti e mai in eccesso dettano il ritmo degli scambi fra moglie e marito, vite che portano con se il peso di un’esistenza che si trascina lenta in una metropoli veloce e in un tempo che, invece, impone a sua volta velocità. L’esistenza si può trascinare, si può vivere di tempi morti in attesa di scosse che possano suonare la riscossa.
Ottima lettura, soprattutto la seconda volta, necessaria quando si chiude con la prima, si apre la finestra e si lascia entrare aria fresca in casa, e si poi ricomincia… accendendo un buon toscano…
Luca Cremonesi