Non esistono grandi storie senza grandi personaggi: in questo personalissimo vademecum Fabio Stassi, narratore a sua volta (per minimum fax ha pubblicato “È finito il nostro carnevale” e “La rivincita di Capablanca”), ha creato duecento ritratti di protagonisti e comprimari dei migliori romanzi italiani e stranieri del secondo Novecento: ciascuno si presenta al lettore in prima persona, rituffandolo nelle pagine che ha già conosciuto e amato o invitandolo a scoprirne di nuove.
Un libro che non è un libro: è un viaggio letterario tra il 1946 e il 1999.
Stassi è uno che scrive mentre viaggia in treno, e, durante questi tragitti, ci presenta i personaggi incontrati e conosciuti durante le sue innumerevoli letture. E me lo sono immaginato su quei sedili, a guardare di fuori dal finestrino e a scrivere, pensando a Zivago, a Gugliemo da Baskerville o a Zazie nel metrò.
Sono sicuro che questa specie di enciclopedia non sarà gradita a molti, perché diranno che è solo un elenco, magari noioso e pedante.
Posso capire. Ma non posso concordare.
Ovviamente è un libro personalissimo.
L’autore fa parlare i protagonisti dei romanzi in prima persona. E dalle loro parole conosciamo le impressioni che romanzi e personaggi hanno lasciato in Fabio Stassi.
E altrettanto ovviamente non è affatto detto che queste impressioni siano coincidenti con le nostre.
Possiamo criticare quanto vogliamo. Possiamo chiederci il perché abbia scelto un dato romanzo e non un altro. Ma una cosa è certa, qui si vede quanto Stassi sia appassionato.
Quanto la lettura sia per lui un pilastro fondamentale e coinvolgente.
Per scrivere un libro in questa modalità ci vogliono passione e cultura enormi.
Per riassumere in venti righe un personaggio di un romanzo ci vogliono abilità, intelligenza, maestria non comuni, capacità di sintesi, dote a me totalmente ignota.
Per quanto mi riguarda, naturalmente non ho letto la stragrande maggioranza dei libri da lui citati.
Molti non li leggerò, di molti mi sono segnato i titoli, ma chissà se li leggerò tutti.
Di quelli che ho letto ho apprezzato e ho letto con trepidazione la sua interpretazione.
Ed è come una macchina del tempo, torni indietro con la memoria a quando avevi letto quel dato libro, a com’eri, a cosa facevi, a cosa avevi provato leggendolo. Come un album di vecchie foto.
Ho provato tanta invidia per la sua cultura e per tutto quello che ha letto. Ma soprattutto ammirazione per la sua passione e la capacità di trasmetterla.
Ti invita a rileggere e ti invita a leggere, a lanciarti in una nuova avventura, a prendere anche tu un treno e viaggiare. Ho trovato analogie con Tumbas, e tanto mi basta.
Chi ama senza freni la letteratura ed è in grado di “passarti” questo amore, è autore che va considerato e preservato.
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“Gabriella”
“Dicono di me che non mi si può spiegare, basta sapere che esisto. Dicono che odoro di garofano e ho colore di cannella, che domo i gatti stringendoli al seno, che la mia pelle brucia, che non sono fatta per un solo uomo. Dicono anche che ho una bocca di rosa, che cucino salse inimitabili, che non sono mai stanca sonnolenta sazia.
Arrivai un giorno scalza e danzante in una vecchia provincia e, dopo, nulla da quelle parti rimase uguale. L’amore, come per miracolo, tornò a essere allegria, invito, febbre, disordine e mai più colpa e delitto. Solo esuberanza africana, voce di canto, luce lunare del desiderio.”
Jorge Amado, Gabriella garofano e cannella, 1958
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“Metello Salani”
“Anche quando pascolavo pecore mi chiamavano il cittadino. Perché mia madre era morta nel consegnarmi alla luce di Firenze e l’Arno mi aveva portato via il padre, anarchico e renajolo. La città mi riconobbe quando vi tornai, con un ciuffo nero fuori dal berretto, l’ombra dei baffi che mi sarebbero cresciuti, le scarpe di vacchetta, il gilè… Non avevo quindici anni e non sapevo ancora di carcere, né di cantiere, né di donne. Ci pensarono una vedova, un vecchio operaio e una ragazza di San Frediano a insegnarmi tutto ciò che serviva.
Il secolo, intanto, finiva tra case stonacate, quartieri di manovali e sigaraje che vociavano. Sulle mie spalle ormai larghe pesavano le settimane di sciopero e la sera il futuro mi tremava nelle mani da muratore insieme alla speranza che mio figlio crescesse libero come voleva il nome che gli avevo dato.”
Vasco Pratolini, Metello, 1955
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Musica: Last train home Pat Metheny
https://www.youtube.com/watch?v=V9vQ_y9JJ1E
Carlo Mars