“Piú ignorante era la gente, e piú sentiva il bisogno di fare la ruota con le piume sul sedere.”
Appena si incontrano i fratelli Burbank non possono non venire in mente altre coppie letterarie di fratelli, ho pensato a Charlie e Adam, e a Cal e Aaron de La Valle dell’Eden, ma anche ai fratelli McPheron di Kent Haruf: il Montana come la California, la California come il Colorado; valli, campi, raccolti, mandrie, animali e animali, la natura madre e matrigna, invadente e avvolgente, ma poi l’analogia finisce qui.
Il West di Thomas Savage, autore praticamente sconosciuto in Italia (e questo è un romanzo del 1967), ma che ci regala un gioiello letterario tenuto nascosto per oltre cinquant’anni. Il romanzo più bello che abbia letto quest’anno è molto particolare e spietato, ambientato nel Montana degli anni Venti.
Non c’è solo l’Ovest delle praterie gelate o, al disgelo, profumate intensamente di artemisia, non ci sono solo i territori che un tempo furono dei nativi oggi confinati nelle riserve, o i due fratelli quarantenni cresciuti fino allora (il racconto inizia nel 1924) quasi in simbiosi e complementari l’uno all’altro; c’è anche il solco che la natura, quella umana, traccia quando un cambiamento, un elemento esterno – di rottura – arriva a dividere e a disallineare equilibri che sembravano fissi e immutabili. C’è soprattutto un modo differente di guardare al futuro e di pensare alla propria vita: il modo di Phil – altero, macho, sicuro di sé, sprezzante, prepotente, collerico, colto – e il modo di George – sensibile, impacciato, lento, taciturno, rozzo, però capace, dopo quarant’anni di vita a due, di innamorarsi, e di tradire, agli occhi del fratello, il loro patto di sangue. Il vulnus sarà una donna carina e insicura che girerà per casa, con un figlio strano, solitario, intelligente e maledettamente effeminato.
Sotto il machismo imperante tra gli uomini che lavorano al ranch e nel rude approccio alla vita di Phil (Si usavano i guanti per rendere le bestie al lazo… per marchiare, per cavalcare. Tutti li usavano tranne Phil. Lui non si curava di vesciche, tagli o schegge e disprezzava quelli che usavano i guanti… le sue mani erano ruvide forti e ossute), nelle sue mani sporche si nasconde un’omosessualità negata che diventa feroce omofobia.
Ma Phil sapeva, Dio sa se lo sapeva, cosa significa essere un paria, e aveva odiato il mondo prima che il mondo odiasse lui.
Su tutto aleggia, ricordata in continuo da Phil, la figura mitica di Bronco Henry, il migliore dei mandriani, ma anche quello che vedeva quello che vedeva Phil nel profilo della montagna di fronte, il profilo del cane. Sempre più Bronco diventa il compagno perduto e nostalgicamente, direi teneramente evocato.
È una storia d’amore, quindi, ma anche di odio, di frontiera, di virilità, di onore, di pregiudizio. E di orgoglio, viene quasi naturale aggiungere, un orgoglio che impedisce a Phil di guardare dentro a se stesso con onestà, a George a comprendere da dove arriverà il pericolo.
Ma oltre alla storia, che si rivela man mano che ci si inoltra fra le pagine, e la vicenda, più complessa di quello che potrebbe apparire (poco facilmente etichettabile, tanto è bene architettata e congegnata), o alla fine rapida e inaspettata, a colpire è lo stile di Savage: asciutto, duro, ma capace al tempo stesso di uno scavo psicologico profondo con poche pennellate.
Pregevole la postfazione di Annie Proulx che permette al lettore di costruire analogie tra la vicenda autobiografica di Savage e la potenza creativa del romanzo: “Una cosa è avere in dotazione questo straordinario materiale grezzo, un’altra riuscire a cucirne insieme i pezzi e ricavarne una storia avvincente, classica, capace di fissare per sempre un luogo e un evento nell’immaginazione del lettore”.
«Libera l’anima mia dalla spada e il mio amore dal potere del cane» [Salmo21]
Pia Drovandi