Mia nonna saluta e chiede scusa – Fredrik Backman #FredrikBackman

Avere una nonna è come avere un esercito. Quando a scuola dicono che Elsa è diversa, come se questa fosse una cosa brutta, quando torna a casa con gli occhi neri e il preside dice che “deve cambiare atteggiamento” e che “ha provocato la reazione degli altri bambini”, la nonna è al suo fianco. Le impedisce di chiedere scusa. Le impedisce di prendersi la colpa. La nonna non dice mai a Elsa di “fregarsene, perché a quel punto per loro non sarà più così divertente prenderla in giro”, o che “deve soltanto far finta di niente”. La nonna lo sa bene, lo capisce perfettamente. La nonna è una di quelle persone che ci si porta in guerra.

“Tutti i bambini di sette anni si meritano dei supereroi. E’ così e basta. E chi non la pensa così è fuori di testa.”

Dei tre libri pubblicati da Fredrik Backman io continuo a preferire l’ultimo (Britt-Marie è stata qui).
Questo è il secondo della serie e si differenzia leggermente dagli altri due più che altro per lo stile. Troviamo sempre vecchietti molto sopra le righe e ragazzini che sarebbero stati perfetti nei vecchi episodi di Quelle simpatiche canaglie, ma qui la storia prende in parte la forma di una fiaba. La protagonista è Elsa che ha sette anni. Anzi, quasi otto: il che fa una bella differenza.

Attraverso gli occhi di Elsa e le mille fiabe che le ha raccontato la sua folle nonna, le vicende e i personaggi del libro prendono i contorni di una favola con i buoni, i cattivi, i mostri, i draghi e gli eroi. Ancora una volta un intreccio che ci porta ad incontrare tanti personaggi, a ridere per il loro agire e a commuoverci quando capiamo il perché delle loro azioni. Va dato atto a Backman di essere davvero formidabile in questo: ha un modo tutto suo di portarti a lacrime di commozione mentre sei nel bel mezzo di una fragorosa risata. Non è da tutti.

Come già aveva detto qualcuno nel gruppo, c’è una evidente evoluzione nella scrittura di Backman: dal primo al terzo libro si nota come la narrazione sia più ricca, meno stereotipata e più originale, e per quanto in ogni libro strizzi l’occhio a tematiche sociali o ad eventi disastrosi lo fa con una grazia accattivante che cattura. Le sfumature negli stati d’animo dei protagonisti si fanno marcate e più complesse. Backman promette bene, benissimo, e io sono molto curiosa e impaziente: quando vorrà deliziarci con un quarto volume mi renderà felice.

Come dicevo in questo libro fa la sua comparsa Britt-Marie. Ecco, posso dire che sono contenta di averla conosciuta in un altro frangente, in una storia tutta dedicata a lei. Perché in questo libro lei è davvero, ma DAVVERO insopportabile. Almeno fino a quando non ci verranno svelate le sue ragioni, perché allora…

Anna Massimino

Traduttore: A. Stringhetti
Editore: Mondadori
Anno edizione:2016

Dorothea Lange – The Great Depression #DorotheaLange #Fotografia

Per la sfida alla voce “Un libro fotografico” ho scelto, complice anche la recente rilettura de La Valle Dell’Eden, una raccolta di Dorothea Lange sulla Grande Depressione.

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La Lange si era stabilita a San Francisco, dove aveva cominciato a documentare con grande continuità le condizioni dei senza tetto e le file dei disoccupati nella città.
Nascevano i primi reportage documentaristici, la fotografia entrava in un nuova epoca: il fotogiornalismo. Ci si accorgeva dell’importanza che i Reportage potevano avere nei confronti delle grandi questioni sociali, non solo da un punto di vista storico. Si cominciava a capire che l’impatto emotivo di una serie di fotografie sul pubblico lo obbligava a reagire, a prendere una posizione morale ma anche pratica di fronte a quello che stava accadendo: in altre parole, la fotografia diventava uno strumento politico di straordinaria efficacia.

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La Lange, insieme ad altri grandissimi nomi della fotografia, collaborò intensamente a questo sviluppo, ritraendo contadini e lavoratori migranti che a causa della crisi in Borsa del 1929 e dei disastri ecologici del Dust Bowl, dopo aver perso le case per i debiti e i terreni per la siccità, abbandonavano le Grandi Pianure e si riversavano a centinaia di migliaia sulla California, con le sue terre ancora fertili. Erano migranti americani in America, si spostavano su carri e macchine se avevano avuto la fortuna di mantenerle, altrimenti a piedi, tutti, padre, madre e bambini, a volte qualche nonno, vestiti di stracci, affamati, disperati. Seguivano il lavoro stagionale delle colture, si accampavano in squallidi agglomerati di casupole di cartone e legna, e qualche tenda.

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La foto icona della Lange, e anche di questo intero periodo storico, è l’immagine della Migrant Mother, misera raccoglitrice di piselli in California, al secolo Florence Owens Thompson. Celebre suo malgrado, perché la Lange non chiese mai il suo nome, né la sua storia, e per quarant’anni quel volto stanco e scavato dalla miseria fu solo una «donna di trentadue anni, madre di sette figli, raccoglitrice di piselli». Addirittura in realtà quella foto non avrebbe dovuto esser venduta, né pubblicata, perché di proprietà del governo e quindi di pubblico dominio; e invece gli scatti della Lange furono inviati al San Francisco News e immediatamente dati alle stampe, senza fruttare alcuna royalty alla fotografa, ma garantendole la fama imperitura. D’altronde l’effetto di quelle foto, accostato a titoli provocatori dei principali giornali dell’epoca (Cenciosi, affamati, falliti: i raccoglitori vivono nello squallore, o Cosa significa New Deal per questa madre e i suoi bambini?) fu immediato. Al campo arrivarono generi alimentari e vestiti, dottori e medicinali: la Migrant Mother aveva cominciato a manifestare il suo potere comunicativo.

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Nonostante sia un libro fotografico per cui in effetti non c’è quasi niente da leggere, ci ho impiegato quasi una settimana a finirlo perchè quelle foto sono drammatiche, mi mettevano addosso una certa angoscia; soprattutto i nonni, i vecchi, non riesco proprio a reggerli, nel loro essere indifesi di fronte al destino bastardo dopo che hai già dato per una vita. Nei bambini invece a volte c’è una speranza, un accenno di sorriso, una luce negli occhi che ancora non si è spenta. Non in tutti però: ci sono foto di alcuni ragazzini più grandi per i quali non ho trovato definizione migliore di questa frase di Bruce: ti guardano con gli occhi di una persona che odia per il solo fatto di essere nata.

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Lorenza Inquisition