Riso nero – Sherwood Anderson #SherwoodAnderson #Risonero #recensione

Il romanzo più importante di Sherwood Anderson resta sempre Riso nero, della, diciamo, seconda maniera: che riassume entro di sé tutti i motivi sparsi negli altri racconti dal ’16 in qua – qualche volta anche più chiari, più riusciti, ma non mai tanto definitivi. (…) Gli si accende nel ricordo – ad un ritmo pensoso e indolentemente solenne, di periodi – il gran tempo del Fiume, quando la vita americana “vera”, di gente che rideva e cantava, si muoveva sul Mississippi ed i negri eran negri e Mark Twain, non ancora ingabbiato dalle idee puritane – la Nuova Inghilterra, la negazione dell’America – ne creava la favola eroica coi libri di Tom Sawyer e di Huckleberry Finn.

Cesare Pavese

“La vita è una sceneggiatura. Ognuno sceglie il proprio ruolo e poi cerca di interpretarlo bene”.

Romanzo pubblicato nel 1925, Riso nero di Sherwood Anderson raccoglie i temi trattati nei racconti precedenti.
In sintesi, è l’incontro fra un uomo insoddisfatto della sua vita lavorativa e del rapporto con la moglie, un uomo che si sente poeta e non riesce ad esprimersi, e di una donna a sua volta intrappolata in un matrimonio deludente. Il protagonista, cronista che vive senza speranza in un matrimonio infelice, dominato dall’incomunicabilità più sconfortante, decide un giorno di scappare di casa e, dopo aver risalito il corso del Mississippi fino a New Orleans, si impiega come operaio presso una fabbrica di vernici nella sua città natale sotto falso nome, convinto che lavorare con le mani possa essere una forma di creazione migliore di quella con le parole, che non gli riesce.
Il libro spazia continuamente fra il prima e il dopo della vita dei due protagonisti, si svolge fra Chicago, alcuni stati dell’America del sud e la Parigi negli anni immediatamente dopo la prima guerra mondiale. Quest’ultima secondo me è la parte più debole del libro, in un continuo confronto fra americani e francesi e sul modo di considerarsi reciprocamente.
Molto belle invece le pagine che descrivono il lavoro manuale e la vita che scorre lungo il fiume e i paesaggi del Mississippi e Ohio.
Bella anche la descrizione della passione travolgente nata fra i protagonisti, priva del puritanesimo americano di cui sono invece pervasi altri personaggi.
Anderson fu accusato di razzismo per come descrisse i neri, rappresentandoli come anime semplici che conducono un’esistenza sguaiata e deridendo i bianchi (riso nero) per il loro vivere formale e meno autentico. Di fatto appaiono più disinibiti e più veri.
Mentre i racconti di Winesburg Ohio, gli unici che ho letto, pur bellissimi, lasciano un che di irrisolto, in questo romanzo, Anderson accompagna il lettore attraverso tutta la storia di quest’uomo che diventa un uomo nuovo che risolve la sua crisi, costruisce la sua vita secondo le sue convinzioni e acquisisce consapevolezza di sè, quella che ti fa comprendere che la vita non è necessariamente quella che gli altri (società, famiglia, tradizioni) hanno costruito o desiderato per te  ma quella che tu, nel tuo io profondo, deciderai di costruire e di affrontare.

“Se certi istanti sono difficili da raggiungere, se tutto svanisce rapidamente, è forse un buon motivo per diventare cinici? Basta un piccolo abile giornalista da strapazzo per trasformarti in un cinico. Chiunque può mostrarti quanto la vita sia corrotta, quanto l’amore sia sciocco: è facile. Prendila con una risata. Poi prendi anche ciò che viene dopo nel modo più allegro possibile.”

Raffaella Giatti

 

Silicon Valley: i signori del silicio – Evgeny Morozov #Morozov #saggio

LEGGERE IL MONDO: BIELORUSSIA

Da ormai dieci anni siamo ostaggio di due tipi di svolte radicali, che ci sono state gentilmente offerte da Wall Street e dalla Silicon Valley. Insieme non fanno che riproporre la scena del poliziotto buono e di quello cattivo: mentre Wall Street predica scarsità e invoca austerità, la Silicon Valley celebra abbondanza e innovazione.(…) e poi è successo qualcosa di strano: non si sa bene come abbiamo finito per convincerci che queste due svolte, queste due presunte rivoluzioni non avessero niente a che fare l’una con l’altra, quando in realtà si alimentano a vicenda”.

silicon

Evgeny Morozov è un giornalista e sociologo nato in Bielorussia ma naturalizzato americano, dottorando ad Harvard, che insegna alla Stanford University. E’ noto per le sue posizioni controcorrente e molto critiche verso l’ottimismo di tendenza nei confronti delle presunte virtù democratizzanti della rete, propugnato dalla maggioranza degli utenti.

Questo libro, edito nel 2016 per Codice Edizioni, è la riproposizione di alcuni  saggi pubblicati da Morozov su varie riviste, molto interessanti e degni di riflessione. A parte qualche inevitabile ripetizione dovuta alla struttura, il libro tratta tre argomenti fondamentali: innanzitutto, il problema dell’invasività nella sfera della privacy da parte delle grande aziende della Silicon Valley. Per Morozov, la pericolosità in questo senso di giganti come Google e Facebook, per esempio, non è adeguatamente percepita dai commentatori e dai semplici cittadini: quando, con facilità e immediatezza, si fruisce dei servizi che ci vengono offerti in rete da Google e da altre aziende, è facile illudersi che ciò avvenga in maniera gratuita, un’illusione da cui ricaviamo quel senso di libertà normalmente associato al muoversi in rete. Ma questa sensazione di libertà non corrisponde di fatto alla realtà: i servizi offerti da queste società non sono affatto gratuiti; anche se non viene richiesto alcun esborso di denaro -al momento- essi sono remunerati con una moneta che consiste nella rinuncia a spazi della propria privacy: di questi spazi i fornitori di servizi si servono per indirizzare la pubblicità, un processo non neutrale, che porta con sé implicazioni geopolitiche importanti. L’introduzione di sempre più oggetti “smart” nelle nostre vite, e delle app che essi portano con sè, lasciano tracce che possono essere unite a tutte le altre  per schedarci in maniera sempre più precisa, addirittura con il nostro implicito consenso quando cediamo volontariamente i nostri dati e parte della nostra vita, come nel caso delle innumerevoli sottoscrizioni che facciamo online.

Ma non solo. Come nell’operato delle fabbriche nel ’900 non veniva calcolato il costo ambientale dell’inquinamento, così ora nessuno ragiona sulla faccia oscura della disruption, lo scardinamento dei modelli di business tradizionali. Mentre i grandi siti ci allettano fornendo servizi a costo più basso, o addirittura gratis, il prezzo occulto in realtà sono le nostre informazioni personali, attraverso le quali le piattaforme consolidano la propria posizione. La grande novità di questi anni nell’economia commerciale di internet, le start up, introducono tra le altre cose il radioso futuro della sharing economy. Però, però. Queste aziende operano secondo un modello pre-welfare: i loro lavoratori godono di reti di protezione sociale minime, e devono farsi carico di rischi che prima riguardavano i datori di lavoro; inoltre, per la struttura stessa di queste start-up, la contrattazione collettiva è ovviamente inesistente. Non è possibile un’organizzazione sindacale, nè una negoziazione per ottenere migliori contributi. Chi vuole lavorare con loro, anche solo come fornitore, deve solo accettarne le regole, altrimenti è fuori, non esiste una terza via di discussione, un intermediario come poteva essere nelle aziende tradizionali – e fisiche – nella figura di un sindacalista, ma anche solo di un notaio, un giudice di pace, uno statuto dei lavoratori. Inoltre. Queste aziende hanno ottime valutazioni ma stati patrimoniali e bilanci d’esercizio stranamente “leggeri”: Uber in fondo non ha bisogno di assumere guidatori, nè Airbnb di possedere case. E soprattutto, invece di aderire a un codice rigoroso e preciso che definisca i diritti dei clienti e gli obblighi di chi fornisce il servizio – la pietra angolare dello Stato normativo moderno- gli operatori di queste piattaforme fanno affidamento sui like, cioè sulla conoscenza diffusa da chi usa il servizio, sperando che sia il mercato a punire chi ha sgarrato. Ma questo mercato della valutazione non è poi così liquido e dinamico: qualche tempo fa negli Stati Uniti alcuni guidatori di Uber si sono rifiutati di trasportare dei passeggeri disabili, non volendo caricare nei bagagliai le loro sedie a rotelle. Se questo accadesse a un taxista, verrebbe denunciato, e processato, per via delle leggi antidiscriminazione. Ma Uber non è una compagnia di taxi, è una piattaforma tecnologica, e d’altronde i suoi guidatori non sono dipendenti: e quindi è chiaro come in un caso come questo non bastino delle segnalazioni di utenti per assicurare un servizio senza discriminazioni: ed è proprio per questo che esistono delle leggi a tutela dei consumatori.

E’ un punto di vista davvero interessante, e se in fondo nessuno nega che la sharing economy -che ha portato il fenomeno di piattaforme come Uber a prosperare – abbia reso le conseguenze dell’attuale crisi finanziaria più sopportabili, rimane il fatto che non sta facendo comunque nulla per rimuoverne le cause.

“Tutto il nuovo mondo economico propugnato dalla Silicon Valley esprime il desiderio di essere “aperto”, “innovativo” e di conseguenza “perturbatore dell’ordine costituito”. Il libero programma  è, per molti versi, esattamente l’opposto dei principi di uguaglianza e giustizia. Le mega aziende del silicio promuovono qualsiasi cosa bypassi le istituzioni come liberatorio e di per sè garantista. Potrai non avere i soldi per pagarti l’assicurazione o l’assistenza sanitaria, ma per loro se hai un’app sul tuo smartphone che ti avvisa ti fare più esercizio fisico, o che non stai mangiando in modo sano, pensano che questo ti abbia risolto il problema”.

Poi c’è la critica del cyber-utopismo. Internet non è, secondo Morozov, il futuro della democrazia, anzi potrebbe rivelarsi un potente mezzo in mano ai governi autoritari, i quali, piegandola ai propri fini, se ne serviranno per esercitare un più efficace controllo sociale di massa, per diffondere propaganda nazionalista ed estremista, per comprimere, negare, o corrodere la libertà di pensiero e di espressione, individuando e perseguitando i dissidenti. I regimi autoritari, secondo l’autore, non sono spettatori che assistono in modo passivo allo sviluppo e all’evoluzione della rete, ma ne sono soggetti partecipi e attivi, dedicandovi energie e risorse, studiando quello che avviene nella rete, cercando di comprenderne il funzionamento e di conoscere il modo in cui vi circolano le informazioni, sia pubbliche sia private; inoltre, si servono del web per tastare il polso alla situazione e orientare di conseguenza la propria azione politica e le scelte repressive.

Alcune delle affermazioni di Morozov mi sembrano davvero troppo distopiche e a onor del vero non del tutto verosimili; trovo che comunque la base del suo ragionamento sia indubbiamente vera e degna di riflessione. Il vero nemico come ce lo spiega lui non è la tecnologia, ma l’attuale regime politico ed economico – una  commistione tra il complesso militare-industriale e la totale mancanza di controllo su annunci pubblicitari e mondo bancario – che sfrutta le più recenti innovazioni portate dalla Silicon Valley per raggiungere i propri scopi, anche se talvolta trasversalmente per noi utenti, piacevoli. Ci promettono più libertà, ma in realtà ci fanno contentare di quello che ci danno, e ci impediscono di immaginare alternative.

E’ un saggio scritto con un linguaggio semplice e a diretto, una lettura veramente interessante per chi vuole approfondire tematiche come la difesa e l’invasione della privacy nei tempi virali dei social network, e di come i governi e le istituzioni potrebbero, o dovrebbero, stare al passo con le inevitabili modifiche che i nuovi modelli economici portano, hanno portato, e porteranno in materia del diritto al lavoro.

Internet non salverà il mondo. Perché non dobbiamo credere a chi pensa che la Rete possa risolvere ogni problema, soprattutto se chi lo pensa guadagna miliardi sulle nuove tecnolgie che vi sta vendendo per pochi centesimi ad applicazione.

Lorenza Inquisition

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