Una paga da fame – Barbara Ehrenreich #saggio #lavoro #paga

*Rory Gilmore Reading Challenge

Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo – Barbara Ehrenreich

Editore: FELTRINELLI, 2004

Collana: Universale Economica Saggi Rossi

Inchiesta del primo millennio che si applica molto bene anche ai nostri giorni.

Nel 1996 il governo Bush attua una riforma fiscale che prevede tra le altre cose un sostanzioso taglio ai programmi sociali destinati ad alleviare la povertà (sussidi per affitto e asilo, buoni alimentari, assistenza sanitaria); l’impatto di questa legge andrà a riversarsi su quei milioni di persone che in America vengono definiti “i nuovi poveri”, categoria intermedia tra la middle class e i derelitti, i barboni, gli indigenti. I nuovi poveri lavorano, e anche tanto, ma il salario minimo sindacale è così basso da non consentire un livello di vita accettabile; per pagarsi un alloggio e il vitto devono in genere mantenere due lavori, senza assistenza sanitaria, e con sempre meno agevolazioni a sostenerli. Non facendo esami di prevenzione o controllo perchè costano, quando si ammalano è spesso una cosa seria e cronica, che non possono affrontare perchè, di nuovo, non hanno soldi per curarsi nè assenza per malattia retribuita, in un ciclo continuo e disperato di scelte di vita impossibili. Sulla scia di questa controversa riforma la giornalista e sociologa americana Barbara Ehrenreich sottopone al suo editore un progetto di reportage: è davvero realistico vivere in modo dignitoso nella più potente economia del mondo lavorando con lo stipendio minimo? come fanno milioni di americani a vivere così? Bisognerebbe, conclude la Ehrenreich, mandare qualcuno sul campo a fare una bella inchiesta vecchio stile, un giornalista che investiga senza rivelare la sua identità. La signora, a dire il vero, si immaginava un giovane stagista rampante, uno che sognava il Pulitzer e il Watergate pronto a fare il lavoro sporco; ma l’editore invece pensò bene di affidare il reportage a lei, cinquantenne con due lauree che da trent’anni stava seduta in un ufficio, e che così si è trovata a fare l’inviata sotto copertura, trasferendosi per qualche tempo in una città lontana dalla sua, dimenticando il suo sicuro conto in banca, la sua assicurazione sanitaria e il suo status di persona istruita, per diventare una qualunque donna divorziata, senza reddito, in cerca di lavoro e casa, che cerca di arrivare a fine mese con dignità.

E’ vero, Key West è una località costosa. Ma lo stesso vale per New York, per tutta l’area di San Francisco, per Jackson nel Mississippi, per il Wyoming, il Colorado, Boston, o qualsiasi zona in cui i turisti e i ricchi si contendono lo spazio vitale con i lavoratori che puliscono i loro cessi e servono loro gli hamburger.

Una paga da fame (titolo originale Nickel and Dimed) è il racconto dei suoi esperimenti di vita nella parte sfortunata, o sbagliata, della città. Per scrivere la sua storia, ha cambiato tre differenti aree del Paese, ogni volta avviando il progetto con tre parametri essenziali: una base di circa mille dollari, per pagare un primo mese di affitto e la caparra, una macchina, e una pila di giornali per cercare un alloggio e un lavoro. Quando uscì il suo libro suscitò un certo scalpore giornalistico-sociale, e rimase nella lista dei best sellers del New York Times per diverse settimane. Personalmente l’ho trovato un’opera che partiva da una premessa interessante, sviluppata per certi versi in modo illuminante, raccontata con ironia non scevra da solidarietà emotiva. Ma non posso dire che sia un granchè sotto il profilo dello studio socio-economico, e nemmeno della testimonianza giornalistica.

La Ehrenreich decide di rovistare nel torbido, ma non tantissimo: i suoi esperimenti durano al massimo qualche settimana, dopo di che molla tutto. Ha svolto i lavori meno qualificati della scala economica: cameriera, donna delle pulizie, commessa in un grande magazzino, aiutante in una casa di riposo; ma ogni volta che un lavoro, passata qualche settimana, diventa troppo gravoso in termini di fatica fisica ed esaurimento mentale, si licenzia, e torna al suo stato di vita superiore. Quando non riesce a trovare un alloggio decente a un prezzo abbordabile, va -pagando di tasca sua- in un motel, e non al dormitorio comune o sul divano di un collega o parente come farebbero (fanno) le persone le cui vite sta cercando di vivere; il giorno in cui le viene un brutto episodio di allergia a mani e braccia, non va al pronto soccorso senza assicurazione sanitaria, per immergersi antropologicamente nel mondo dei poveri che non possono pagarsi una cura medica e vivere la loro realtà: invece, chiama al telefono il suo dottore e si fa prescrivere medicine ed esami. Poi, ai fini del suo studio non aiuta senz’altro il fatto che sia una donna di mezza età che ha lavorato manualmente solo intorno ai vent’anni quando era al college, per poi diventare scrittrice. Manca del tutto dell’esperienza umana condivisa da milioni di lavoratori (non solo poveri) che sanno che spesso i ritmi di lavoro aziendali sono sfiancanti, che in genere vieni trattato a pesci in faccia da capi e capetti, che l’azienda non ti considera un essere umano (anzi non ti considera proprio), che la paga è una miseria ma che farci di questi tempi, che le storie di ordinario sfruttamento, legalizzato dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro, sono la norma. Le sue osservazioni stupefatte su tutti questi aspetti di vita da lei vissuti per la prima volta, pur se sincere, sono francamente irritanti.

Quindi, da un punto di vista giornalistico, il suo reportage è un lavoro un po’ superficiale, poco realistico, e in conclusione insoddisfacente.

Però bisogna riconoscere che il suo intento era lodevole, la sua indignazione giusta, l’empatia per le condizioni delle colleghe con cui divide poche settimane di sfortuna onesta e autentica, e pensando che se non ce l’ha fatta la Ehrenreich, che partiva già avvantaggiata non avendo figli a carico e potendo disporre di una macchina propria e di un gruzzolo per decollare, dobbiamo realmente chiederci perchè pur sapendo come sia impossibile vivere dignitosamente in questa maniera, la nostra società, i nostri governi, noi, lasciamo che milioni di persone lo facciano. Ha anche un messaggio valido e partecipe contro quella corrente di pensiero abbastanza diffusa tra politici e classe medio alta seconda la quale chi si trova in una condizione di povertà è perchè, in un certo senso, non fa abbastanza per togliersene: non lavora abbastanza, non pensa abbastanza, non si sforza abbastanza. E questo, semplicemente, non è quasi mai vero.

“Riesce difficile, per chi povero non è, riconoscere che la povertà è uno stato di sofferenza acuta, fatta di pranzi di dieci minuti a base di un sacchetto di patatine, per cui ti senti svenire prima della fine del turno. Fatto di notti a dormire in macchina, perché quella è la sola “casa” che hai. Fatto di malesseri o infortuni superati stringendo i denti perché le assenze per malattia non sono retribuite o coperte dall’assicurazione e la perdita di un giorno paga significa niente pranzo il giorno dopo. Esperienze del genere non fanno parte di una vita vivibile, neppure di una vita di privazione cronica e di piccole, continue vessazioni. Sono, a tutti gli effetti, situazioni di emergenza. Ed è così che dovremmo considerare la povertà di milioni di lavoratori a basso salario: come uno stato di emergenza”.

Lorenza Inquisition

Saigon e così sia – Oriana Fallaci #OrianaFallaci #recensione

“E’ stata, è, una Hiroshima senza fine; per arrivare a una fine senza fine.”

Editore: Rizzoli
Anno edizione: 2010

Tutto si può dire di lei, tranne che non sapesse scrivere. Possiamo discutere sugli argomenti, ma non sulla forma. In questo caso, si tratta di un reportage di guerra, raccontata dalla parte opposta rispetto a “Niente e così sia“; in quest’ultimo la scrittrice si trovò faccia a faccia col Sud e le sue tradizioni, con la presenza fissa degli americani, e divenne un libro di denuncia, il racconto delle atrocità perpetrate durante una delle più sanguinose e inutili guerre che siano mai state combattute. In Saigon e così sia invece la scrittrice viaggia verso il Nord e successivamente verso la Cambogia, raccontando aneddoti, esperienze e incontri, andando a completare il quadro della guerra del Vietnam vista attraverso i suoi occhi: è il libro della disillusione, faccia a faccia con i vietcong e col comunismo. Il Vietnam del Nord, che è stato tanto idealizzato, di cui tanto si è parlato, non è il luogo che si aspettava.
Oriana in questo caso è anche abbastanza intellettualmente onesta da non esser sfacciatamente di parte, anche se non giurerei sulla totale obiettività e oggettività di quello che scrive. Ma d’altra parte, quando mai un narratore, per quanto voglia solo descrivere, riesce davvero a non farsi influenzare dalle proprie idee e sentimenti?

Io sono nata nel 1978, quindi non ho vissuto direttamente quel periodo storico. Il libro quindi è stato per me interessante anche per capire come allora venisse vista in Occidente, ed in italia in particolar modo, quella guerra, della quale perlopiù so da film americani. Certamente non oggettivi nemmeno loro!

Molto bella la prima parte del libro, che racconta il soggiorno ad Hanoi. La narrazione è veloce, diretta, ti proietta sul luogo con la scrittrice. Le altre pagine poi sono raccolte di articoli pubblicati, non più quindi sotto forma di diario ma di analisi di vari aspetti della guerra, raccontata quindi in maniera più distaccata. Una lettura che è un ottimo spunto per cercare di approfondire una guerra ed un periodo storico che altrimenti, per la mia generazione, rimane pressochè sconosciuto (non so se nel frattempo sia cambiato qualcosa, ma ai miei tempi a scuola si riusciva a malapena ad arrivare alla seconda guerra mondiale. Tutto ciò che è successo nel secolo successivo, ed a mio parere assolutamente fondamentale per capire il mondo di oggi e le sue guerre, non viene praticamente nemmeno accennato). Questo testo, inoltra, rende evidente che il comunismo totalitario non è stato solo quello russo, come le dinamiche politiche e sociali in quegli anni hanno stravolto non solo l’Europa ma anche l’Est, che con la caduta del muro il comunismo non è finito.

Cecilia Didone