Dorothea Lange – The Great Depression #DorotheaLange #Fotografia

Per la sfida alla voce “Un libro fotografico” ho scelto, complice anche la recente rilettura de La Valle Dell’Eden, una raccolta di Dorothea Lange sulla Grande Depressione.

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La Lange si era stabilita a San Francisco, dove aveva cominciato a documentare con grande continuità le condizioni dei senza tetto e le file dei disoccupati nella città.
Nascevano i primi reportage documentaristici, la fotografia entrava in un nuova epoca: il fotogiornalismo. Ci si accorgeva dell’importanza che i Reportage potevano avere nei confronti delle grandi questioni sociali, non solo da un punto di vista storico. Si cominciava a capire che l’impatto emotivo di una serie di fotografie sul pubblico lo obbligava a reagire, a prendere una posizione morale ma anche pratica di fronte a quello che stava accadendo: in altre parole, la fotografia diventava uno strumento politico di straordinaria efficacia.

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La Lange, insieme ad altri grandissimi nomi della fotografia, collaborò intensamente a questo sviluppo, ritraendo contadini e lavoratori migranti che a causa della crisi in Borsa del 1929 e dei disastri ecologici del Dust Bowl, dopo aver perso le case per i debiti e i terreni per la siccità, abbandonavano le Grandi Pianure e si riversavano a centinaia di migliaia sulla California, con le sue terre ancora fertili. Erano migranti americani in America, si spostavano su carri e macchine se avevano avuto la fortuna di mantenerle, altrimenti a piedi, tutti, padre, madre e bambini, a volte qualche nonno, vestiti di stracci, affamati, disperati. Seguivano il lavoro stagionale delle colture, si accampavano in squallidi agglomerati di casupole di cartone e legna, e qualche tenda.

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La foto icona della Lange, e anche di questo intero periodo storico, è l’immagine della Migrant Mother, misera raccoglitrice di piselli in California, al secolo Florence Owens Thompson. Celebre suo malgrado, perché la Lange non chiese mai il suo nome, né la sua storia, e per quarant’anni quel volto stanco e scavato dalla miseria fu solo una «donna di trentadue anni, madre di sette figli, raccoglitrice di piselli». Addirittura in realtà quella foto non avrebbe dovuto esser venduta, né pubblicata, perché di proprietà del governo e quindi di pubblico dominio; e invece gli scatti della Lange furono inviati al San Francisco News e immediatamente dati alle stampe, senza fruttare alcuna royalty alla fotografa, ma garantendole la fama imperitura. D’altronde l’effetto di quelle foto, accostato a titoli provocatori dei principali giornali dell’epoca (Cenciosi, affamati, falliti: i raccoglitori vivono nello squallore, o Cosa significa New Deal per questa madre e i suoi bambini?) fu immediato. Al campo arrivarono generi alimentari e vestiti, dottori e medicinali: la Migrant Mother aveva cominciato a manifestare il suo potere comunicativo.

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Nonostante sia un libro fotografico per cui in effetti non c’è quasi niente da leggere, ci ho impiegato quasi una settimana a finirlo perchè quelle foto sono drammatiche, mi mettevano addosso una certa angoscia; soprattutto i nonni, i vecchi, non riesco proprio a reggerli, nel loro essere indifesi di fronte al destino bastardo dopo che hai già dato per una vita. Nei bambini invece a volte c’è una speranza, un accenno di sorriso, una luce negli occhi che ancora non si è spenta. Non in tutti però: ci sono foto di alcuni ragazzini più grandi per i quali non ho trovato definizione migliore di questa frase di Bruce: ti guardano con gli occhi di una persona che odia per il solo fatto di essere nata.

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Lorenza Inquisition

La frontiera – Alessandro Leogrande

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“…Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di rccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.
Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti.
Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come son fatti i compagni di viaggio, e perché – a un certo punto – li si chiama compagni.
Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell’oscurità.
Quelle voci…sovente si infervorano. E allora gli occhi si sgranano e le bocche si torcono per afferrare le sillabe che compongono la parola da cui tutte le altre discendono. E ogni volta che viene pronunciata, il mondo nuovo si affretta a venire mentre quello vecchio scompare lentamente. Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
E’ la frontiera…
Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.”

Quanta storia, quante storie non so. Quante non ci vengono raccontate. Quante non andiamo a cercare. Restare attenti, restare all’erta, dubitare e farsi domande. Forse potremmo fare dell’altro ma intanto questo è un primo piccolo passo.

“Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse”.

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DESCRIZIONE

C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse.

Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
È la frontiera.

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla moltiplicazione e all’irrigidimento di nuovi confini nel nostro continente: l’idea di una confederazione libera e pacificata ha lasciato rapidamente il passo alla realtà di una fortezza ben custodita e facile preda ideologica delle nuove destre. Se c’è una colpa recente che l’Europa non potrà lavare facilmente, è questa. Avere condannato a morte decine di migliaia di persone (uomini, donne, bambini) per tenere ferme delle linee su una carta.

In tale ottica la frontiera diventa davvero un concetto chiave per comprendere la contemporaneità; un vero e proprio strumento di misurazione, come spiega l’autore: “La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile.”

Su questa base l’ossessione narrativa ed etica di Leogrande: se ci sono dei confini e ci sono intere masse che tentano di attraversarli, spesso invano, la necessità primaria è “oltrepassare la categoria di ‘vittima’, che non spiega niente della complessa vita degli esseri umani. Provare a dipanare i fili di eventi che a prima vista paiono incomprensibili nel loro ginepraio di violenza, lutti, oppressione, che pure determina la vita di tanti.”