The saffron kitchen, Yasmin Crowther

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Ho appena finito The Saffron Kitchen di Yasmin Crowther, e vorrei dire che è un romanzo ben scritto, con una bella storia, dei bei personaggi, delle descrizioni dell’Iran – ma anche dell’Inghilterra – che tolgono il fiato, eppure c’è qualcosa che non quadra.
Sara è la figlia trentenne di Maryam, iraniana di buona famiglia trasferitasi a Londra negli anni Cinquanta dopo essere stata allontanata dal padre per averlo disonorato; Sara però non sa nulla del perché la madre sia stata cacciata da casa. La presenza del nipote Saeed, da poco orfano della madre Mara, sorella di Maryam,scatena in Maryam una reazione che porta alla tragedia; per la donna è il momento di tornare in patria per fare pace con i suoi fantasmi; per la figlia e per il marito è il momento di capire cosa Maryam abbia taciuto durante gli anni di vita londinese.
Inizialmente la voce narrante è quella di Sara. Nel secondo capitolo il narratore è esterno ma, quando Maryam arriva a Mazareh improvvisamente è lei, ragazza, a raccontare in prima persona gli avvenimenti che culminarono nel suo allontanamento dalla famiglia, e poi il capitolo si conclude con un ulteriore intervento del narratore esterno. Il terzo capitolo si apre a Londra con Sara che continua il racconto interrotto e da lì in poi sarà un’alternanza continua di narrazione in prima persona mentre Sara è a Londra e di narrazione in terza persona quando il racconto torna a parlare di Maryam nella sua terra, per poi proseguire solo in terza persona quando madre e figlia si ricongiungono in Iran, e terminare in prima persona quando Sara torna a Londra. Questo continuo cambiamento di prospettiva confonde e finisce per diventare estremamente fastidioso, ed è un peccato, perché il libro è disseminato di passaggi di una bellezza sconcertante che sono il segno di una penna sensibile. Nella trama ci sono anche elementi che non riescono a risultare credibili – una sedicenne malata può essere abbandonata al delirio della febbre da famiglia e servitù che fuggono altrove perché c’è sentore di rivolta? uno scapolo e una donna sposata che si mormora siano stati amanti possono essere verosimilmente lasciati soli nell’Iran dell’inizio del terzo millennio? – e che danno all’intreccio la statura di un libro Harmony. Insomma: molti alti e bassi, solo che gli alti sono molto alti, ma i bassi sono troppo bassi. Peccato.

Maria Silvia Riccio

The postman always rings twice, James M. Cain

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Lunedì sono andata a fare un giro in biblioteca e nella minuscolissima sezione dei libri in lingua originale ho trovato questo libriccino un po’ male in arnese ma allettante, visto che non l’avevo mai letto – non ho nemmeno visto il film, stranamente – e considerato che uno degli strilli sul retro sosteneva che “Nessuno è mai riuscito a sospendere la lettura di un libro di Jim Cain”. Ho girato la copertina e sulla prima pagina ho trovato una dedica vergata a mano che recita: “1st January 1986 – When I saw this book, I immediately thought of you. Suppose Bruno was a restaurant owner… To my dearest little Scot, a world of wishes and love, M.” e ovviamente a quel punto DOVEVO sapere perché M avesse scritto quelle righe. Insomma, lo confesso, ho letto Il postino suona sempre due volte per voyerismo!
La storia d’amore – ma è amore? – tra Frank Chambers e Cora è il motore di un crimine, di un processo lampo e del mutuo sospetto che entrambi gli amanti nutrono sulla lealtà reciproca. L’epilogo a sorpresa – ma con quel titolo non è proprio una sorpresa – può essere interpretato come una redenzione o come una condanna definitiva, a piacere.
Effettivamente, letta la prima pagina non sono più riuscita a mettere giù il libro, che è comunque abbastanza breve e si presta ad una lettura tutta d’un fiato. La storia è narrata in prima persona da Frank che sembra scegliere le parole in base ad un principio di economicità, raccontando solo l’essenziale, come se fosse sul banco dell’imputato. C’è un che di violento, di animalesco – mi verrebbe voglia di dire rudimentale – nel tratteggio del protagonista, che non si ravvisa nell’ingenuità del Greco, la vittima del crimine, che invece ispira simpatia per la sua dabbenaggine e il suo ottimismo spesso tutto riassunto nell’inglese smozzicato di immigrato in quella che nel 1936 sicuramente per molti europei era proprio the land of opportunity. La protagonista è femme fatale quel tanto che basta, Eva tentatrice che chiede morsi e Madonna con bambino in progress che sogna baci per i seni che si preparano all’allattamento, più evoluta del suo amante che s’accontenterebbe di vagabondare e vivere d’espedienti mentre lei aspira ad “essere” qualcosa. Sicuramente hard boiled, godibile, avvincente e divertente, ma non lo metterei nella valigia degli indispensabili. Epperò continuo a chiedermi se quella dedica del 1986 fosse un messaggio in codice per qualcuno, e quale…

Maria Silvia Riccio