“A quel tempo la follia non era ovattata, dissimulata, intontita, mascherata, camuffata come oggi con gli psicofarmaci. La follia esplodeva uguale a un vulcano. Nei cameroni – nudi o malamente coperti da una camicia sdrucita – urlavano i matti, in parte legati con le cinghie ai braccioli del letto. Le risse tra loro frequenti, le aggressioni agli infermieri giornaliere. Le pareti squallide, color dell’osso morto; i tavoli inchiodati al pavimento; le finestre con le sbarre, le porte chiuse a tre mandate. Nel silenzio della notte arrivavano i lamenti, le sorde imprecazioni, i suoni di bestiale disperazione. Così dalla parte degli uomini, e ugualmente nelle divisione femminile; da questa in più gemeva la miseria del sesso. Tutto era carcere.”
Romanzo composto da venti racconti tutti raccontati dalla voce di Anselmo, dottore in psichiatria nel manicomio di Lucca, pubblicato nel 1972, vincitore del Premio Campiello.
Il periodo di riferimento delle vicende va dagli anni dell’anteguerra fascista agli albori della riforma Basaglia, l’età moderna, e gli accadimenti riportano i cambiamenti in ambito psichiatrico avvenuti in quegli anni. Anni in cui si scoprirono gli psicofarmaci, e in cui si sviluppò una corrente di pensiero che negava la malattia mentale e ne attribuiva le cause alla società sempre più consumistica e capitalista.
E, ironizza Tombino, lui che ha cercato di capire la causa della follia, illudendosi a volte di esserci riuscito, lui che aveva supposto che la malattia mentale non avesse nulla a che fare con il mondo affettivo che rimaneva intatto, ma era legato solo a quello della intelligenza razionale: “Oggi è di moda, un andazzo, specie presso i medici giovani, psichiatri innovatori, di sdrammatizzare la pazzia, dichiararla non pericolosa, affermare che non esiste: e non la vogliono riconoscere neppure quando tragicamente si presenta. E se delle volte la pazzia li colpisce proprio sul muso, che è impossibile dire di no, allora ripiegano sulla società, incolpano questa, che è malformata, la società la profonda causa delle malattie mentali.”
L’avvento degli psicofarmaci permise la nascita di una nuova logica, di una nuova filosofia nei confronti della malattia mentale e nella prassi di assistenza dei malati che, per la prima volta non erano solo accuditi e custoditi, ma anche curati e a volte anche guariti.
Definirei questo libro delicato. Delicato come solo la poesia sa essere.
Delicato nel cogliere quella diversa normalità che comunica in altro modo, il bisogno di amore di queste persone e la necessità di trovare un via per riconoscere a loro stessi un posto e un ruolo (ove era possibile) all’interno di quel microcosmo.
Il suo linguaggio è pietoso e al contempo spietato nel ricondurre alla pragmatica necessaria per custodire i malati.
Il suo linguaggio è musica, come quella che usano alcuni malati per comunicare.
Il suo linguaggio è purezza, come quella che cercano alcuni malati bruciandosi le mani.
Il suo linguaggio è immortale, come pensa di esserlo il “federale” che con un delirio di negazione dice che il mondo non esiste ed è vuoto, e quindi lui è eterno.
Ed è immortale perché parla con il linguaggio del cuore.
«Bongi era un marinaio, la follia non era riuscita a stringerlo nei ceppi; la sua mente aveva continuato a navigare, a conversare con le stelle e coi venti»
Egle Spanò