Mario Calabresi, A occhi aperti

“Cosa potremmo sapere, cosa potremmo immaginare, cosa potremmo ricordare dell’invasione sovietica di Praga se non ci fossero, stampate nei nostri occhi, le immagini di un “anonimo fotografo praghese”, che si scoprì poi chiamarsi Joseph Koudelka?

Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perchè c’è una fotografia che li racconta.”

Mario Calabresi

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Dopo il suggerimento di Anna ieri, ho preso questo libro e mi ci sono immersa. E’ una serie di interviste a grandi fotografi, pur non rimanendo un libro sulla fotografia: è un libro sul giornalismo, su quello che deve essere la vera essenza del fotoreporter: fermare la Storia in un’immagine, e raccontarla al mondo.

Anja Niedringhaus, una fotografa dell’Associated Press uccisa nel 2014 in Afghanistan, soleva dire che i tempi passano, ma il suo lavoro, come fotogiornalista, riguardava la gente, la necessità di mostrare l’umanità quando lotta per la sopravvivenza, in tutte le zone di guerra in cui è stata.

Le foto di questo libro raccontano storie di gente, impegnata nella lotta contro vari tipi di guerra: quella contro la fame, terribile negli occhi di bambini e delle loro madri impotenti; quella contro l’ignoranza, la gente comune che piange al passaggio del feretro di Robert Kennedy, o gli occhi senza vita di una giovane palestinese mentre i suoi carnefici, studenti cristiani a Beirut che rastrellavano i quartieri musulmani, ridono e cantano in piedi davanti al suo cadavere. La perenne lotta dell’uomo contro la natura, nelle meravigliose foto di McCurry; e l’ultima, la guerra più terribile, contro un altro essere umano. Di queste, purtroppo, c’è una serie infinita di testimonianze. Sono molte le interviste a fotografi di guerra, perchè c’è sempre una guerra da raccontare, e perchè il giornalista che la racconta spesso non riesce a staccarsene: troppi sono gli orrori di cui è testimone, troppe le morti e la disumanità. Non accetta questa realtà, pur continuando a fotografarla, e ritorna su quei luoghi perchè lo sente come un dovere, e perchè sempre si insinua il dubbio sottile che se non lo facesse lui, nessun altro andrebbe a parlare di quell’orrore, e quindi a ricordarlo.

Molti di questi fotografi intervistati da Calabresi testimoniano di anni spesi in depressione, debilitati anche fisicamente, ossessionati dalle immagini impresse nelle loro pellicole.

“E’ stato il periodo più duro, ho raccontato storie terribili: quello che ho visto nei miei molti viaggi attraverso le conseguenze del genocidio ruandese mi ha fatto perdere la fede nell’uomo e nel mondo. Sotto i miei occhi la gente moriva di colera, di diarrea, di ogni tipo di malattia, della violenza dei campi profughi. Alla fine di questo percorso stavo male, la salute a pezzi. Un medico mi disse: “Il problema è che tu hai troppa morte dentro” (S. Salgado)

E’ la quotidianità della guerra che ti entra dentro, la precarietà della vita, l’assurdità del tutto: a volte è solo un caso a decidere chi sopravviverà, e il fotografo è in mezzo a loro, senza difese in più. Ma va avanti, non si arrende, continua a testimoniare, a volte pagando un caro prezzo: Joseph Koudelka, che fotografò la primavera di Praga mostrando al mondo la verità dell’invasione sovietica, i morti nelle strade, era ricercato dal regime russo, e passò in esilio quasi trent’anni, rivedendo solo una volta i vecchi genitori.

Ci sono storie su storie, in questo libro. Una, bellissima e terribile, è raccontata da Abbas, è il crollo della monarchia persiana in Iran, il colpo di stato dei mullah, l’arrivo di Komeini.

“Era un Paese diviso troppo da arretratezza e modernizzazione, ero favorevole alla rivoluzione, non c’era vera democrazia sotto lo Scià, pensavo ci sarebbe stato un colpo di Stato. Sapevo che c’erano elementi di fanatismo religioso, ma l’elite politica del paese era colta e occidentalizzata, avevamo il petrolio, i mullah erano ignoranti, non erano i cervelli: non c’era ragione perchè fallissimo. Ma noi -gli universitari, i professori, i cervelli – sottovalutammo il prezzo che un fanatico religioso è disposto a pagare, non eravamo pronti a cacciare i mullah con la violenza. Loro sì, anche a prendere le armi. Per questo hanno vinto.”

E’ un libro che racconta storie indimenticabili, con immagini che parlano di vicende incredibili e umanissime, a volte così crudeli e disumane da togliere il fiato. Impossibile dimenticare lo sguardo del bambino albino che muore di fame, impossibile reggere lo sguardo della bambina mendicante di McCurry. La vera essenza del giornalismo dovrebbe essere, secondo lo statuto, una disciplina di dimostrazione (della verità, presumibilmente): questi fotografi a volte per caso, a volte per genio, a volte per studio, afferrano la Storia per un momento assoluto e la fissano su una pellicola, regalandoci una testimonianza di realtà di un valore ineguagliabile.

Lorenza Inquisition

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“Non si deve andare in un altro Paese per testimoniare la sofferenza, ci sono guerre sociali nelle nostre città: poveri, senzattetto. immigrati, rifugiati. Io non me li sono mai dimenticati” (D. McCullin)

 

 

Annelie Wendeberg, Moriarty Trilogy

“I think that in an odd way, James loved me, and that breaks my heart. And although the love he gave was selfish, it was the only one he knew. Who am I to judge his loving as having less value than mine?”

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The Devil’s Grin, The Fall, The Journey.

Uscendo da situazioni di vita letteraria provanti come Stoner e Il giorno delle civetta, ho deciso di svagarmi nella Londra vittoriana con questa trilogia, che trallaltro mi cade a fagiuolo per la disfida, alla voce: trilogia. D’HO!

La protagonista di questi romanzi è il Dottor Kronberg, ho detto “la”, esattamente. Anna Kronberg è una giovane donna di intelligenza superiore, da sempre attratta dalla scienza; figlia di un carpentiere bavarese, decide di sfidare la società in cui vive, che non permette alle donne altra carriera se non quella di mogli e madri, al massimo assistenti di qualche studioso, e travestendosi da uomo frequenta l’Università, laureandosi in medicina e ottenendo un dottorato di quattro anni a Londra dove, sempre travestita, esercita la professione di medico.

L’argomento non è in sè nuovo, ma è molto ben sviluppato: vivere per anni fingendo di essere quello che non si è, cercare di essere sempre un passo avanti al sospetto altrui, non rilassarsi mai, inventare nuovi modi per giustificare l’assenza di tratti maschili man mano che il tempo e la maturità avanzano. E al tempo stesso negare costantemente la propria natura, vivere in due posti diversi per ingannare vicini o colleghi curiosi, essere sempre soli perchè nessuno, non un servitore o un vicino, possa sospettare e quindi tradire, non potersi mai confidare con nessuno, costringere il proprio corpo a una serie di rinunce, evitare con garbo dichiarazioni amorose di servette e proposte di colleghi per una propria parente. E soprattutto studiare casi su casi sapendo che alla fine tutti i sacrifici fatti saranno vani: l’inganno, anche se di successo al momento, dovrà inevitabilmente concludersi entro pochi anni al massimo, perchè nessuno potrebbe credere a un uomo di oltre trent’anni che non mostri alcun segno tangibile di virilità fisica.

Ma Anna studia, lavora, vive: divora giornali e libri che da donna non potrebbe leggere, ama un giovane ladro del quartiere in cui vive “da donna” la sera, studia casi medici appassionanti, si specializza in Batteriologia, una scienza relativamente nuova ai tempi. Il futuro non è roseo, ma la situazione va accettata.

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Nel primo libro, The Devil’s grin, un bel mattino del 1890 Anna viene chiamata per una visita da un ispettore di polizia, Lestrade: richiedono la sua assistenza per esaminare un cadavere rinvenuto nel Tamigi, forse affetto da colera. Sul luogo trova un consulente detective, un uomo alto, dagli occhi grigi, che le viene presentato come Mr. Holmes; mezzo minuto netto, e il più grande detective del mondo con un lampo di sorpresa mostra di aver colto il segreto di Anna, la sua identità nascosta che per anni nessuno ha sospettato.

Ho un po’ barato arrivando qui con il palesarvi in ritardo Sherlock Holmes: nella presentazione del libro di questa autrice sconosciuta ai più, l’editore si affretta a rimarcare da subito UNA NUOVA AVVENTURA DI, e in fondo fa bene, perchè tutto il pubblico, me compresa, acquista inizialmente questi romanzi per Holmes, certo non per Anna Kronberg. Ma ho voluto prima farvi un po’ conoscere l’eroina, perchè è una donna in gamba. E’ talmente in gamba che è lei a sorpresa la vera protagonista, difende il proprio spazio con unghie e denti, perchè chiunque sia almeno un po’ familiare con il Canone di Holmes sa bene quanto ingombrante, quanto enorme sia il personaggio.

In questi romanzi, tuttavia, Holmes è un coprotagonista, diventa il Watson di Anna, con la differenza che essendo Sherlock Holmes lei non deve passare minuti a spiegargli i propri ragionamenti e il perchè e il percome. Vien quasi da dire che il detective più grande del mondo sia stato scomodato per niente: le riflessioni sul modo in cui vivono le donne nel suo tempo, le considerazioni sulle orribili condizioni dei poveri e dei senza tetto di Londra, le osservazioni sulle scoperte scientifiche e le deduzioni investigative durante il caso qui presentate sono tutte di Anna. Holmes è una specie di comprimario che appare e scompare grazie ai famosi travestimenti, e a prodigiose deduzioni che arrivano sempre alla pari -mai prima, e ovviamente mai dopo- di quelle dell’eroina.

Il primo romanzo è il meglio costruito, e il più bello, come spesso succede.

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Il secondo, The Fall, è più un thriller psicologico che un vero giallo: i cattivi che alla fine del primo libro sembrano essere stati sconfitti, riappaiono sequestrando l’eroina, e costringendola sotto minacce di vario tipo a sviluppare e isolare il germe dell’antrace, che intendono poi commercializzare per governi senza scrupoli come armi non convenzionali. Per il novanta per cento del romanzo Anna è rinchiusa o nella sua stanza o nel laboratorio dove lavora al suo progetto, e quasi tutta la trama è incentrata sui suoi pensieri, ricordi, paure, ansie. E’ il meno riuscito, perchè è lento e Holmes se possibile appare ancora meno di prima, ma mi è piaciuto comunque.

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Il terzo, il conclusivo, The Journey, è più dinamico e avventuroso: Anna e Holmes sono in fuga dagli emissari di Moriarty, e cercano di escogitare una serie di trappole e stratagemmi per evitarli nonchè eliminare i loro diabolici piani di bioterrorismo. Il finale è triste ma non strappacore, e tutto sommato coerente con le scelte fatte fino a quel momento dall’eroina, pochi compromessi e una certa sensibilità.

Questa trilogia mi è piaciuta molto, sono gialli insoliti, molto cupi, a volte malinconici. Vi sono delle questioni morali, per esempio l’atteggiamento dei capi di governo verso i soldati e le perdite considerate accettabili, e vari capitoli sull’aborto che alcune persone potrebbero trovare disturbanti. Mi è piaciuto anche il rispetto per Holmes, che viene sì sfruttato ma tutto sommato in modo ammiccante, quasi a dire Lo sappiamo che è il più grande detective del mondo, lo usiamo solo per un po’.

Lorenza Inquisition

“Whatever happened, you are alive and he is dead. You have memories while he will be only one of them. You feel guilty, but he never felt remorse. You can go on, and he will not. This is essential: he will not go on because you stopped him.”