Dieci giorni in manicomio – Nellie Bly #NellieBly #giornalismo #reporter #EdizioniClandestine

Dieci giorni in manicomio – Nellie Bly

Traduttore: B. Gambaccini
Collana: Highlander

“Battevo i denti e tremavo, il corpo livido per il freddo che attanagliava le mie membra. All’improvviso, tre secchi di acqua gelida mi furono versati sulla testa, tanto che ne ebbi gli occhi, la bocca e le narici invase. Quando, scossa da tremiti incontrollabili, pensavo che sarei affogata, mi trascinarono fuori dalla vasca. Fu in quel momento che mi sentii realmente prossima alla follia.”

Nellie Bly, pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran, nata in Pennsylvania nel 1864, può essere considerata la prima reporter investigativa, una donna che precorse il moderno mestiere del giornalismo sul campo. In un’epoca in cui per le donne era complicato anche solo pensare di poter lavorare e essere indipendenti, lasciamo poi perdere il fare carriera in campi prevalentemente maschili come quello dell’informazione, la Blythe a soli 23 anni sfasciò ogni convenzione legata al modello femminile che la società del tempo imponeva, creando nel contempo un modo tutto nuovo di intendere e di fare giornalismo. La sua idea ancora oggi pare più folle che visionaria: nella speranza di ottenere un posto presso il New York World, di Joseph Pulitzer, concorda con il famoso direttore di provare a scrivere sulle condizioni del sanatorio femminile Women’s Lunatic Asylum nell’isola di Blackwell, situata a sud-est di Manhattan, entrando nel manicomio come una paziente, provando quindi a fingersi pazza.

Il progetto della Bly ha, per quei tempi (siamo nel 1887), un approccio molto originale poiché fingendosi malata di mente, e volendo vivere in prima persona l’esperienza che vivevano le altre pazienti nel momento in cui venivano designate come “alienate”, accettò di essere internata a tutti gli effetti. Fu quindi sottoposta alle terribili condizioni in cui venivano trattate le altre poverette nella struttura, per uscirne dopo dieci terribili giorni solo grazie all’intervento del suo giornale. Nel ruolo di Nellie Brown, Cochran simulò disturbi mentali fino all’arrivo a Blackwell. Una volta nell’istituto, si ripromise di parlare e agire come al solito nella sua vita quotidiana. Eppure, più si comportava razionalmente e più veniva considerata malata da tutti, ad eccezione di un unico medico dai modi gentili.

Nella sua stanza-cella c’era qualcosa che somigliava a un letto sul quale provò a stendersi con i capelli e la camicia ancora bagnati dopo la doccia gelata. Quando passò l’infermiera, le chiese una camicia da notte ma la risposta fu che doveva accontentarsi di quello che c’era e ringraziare, trovandosi in un’istituzione pubblica.
“I cittadini pagano per mantenere questi posti”, si ribellò Nellie – e pagano perché le persone siano gentili con le sfortunate residenti”.
“Non deve aspettarsi alcuna gentilezza qui perché non l’avrà”, le rispose l’infermiera uscendo e chiudendo a chiave la porta.

La sua inchiesta fa parte della storia del grande giornalismo: descrisse pubblicamente il sanatorio come più simile a un luogo di reclusione che di cura, una trappola umana per topi. È facile entrare ma, una volta lì, è impossibile uscire. Il vitto era scadente, i bagni freddi, l’igiene scarsa ed i maltrattamenti costituivano la regola. Insieme alle degenti realmente affette da patologie psichiatriche inoltre venivano internate emigrate povere e donne ripudiate dai familiari, sane di mente ma rifiutate dalla società. Quando l’inchiesta (generalmente conosciuta col nome del volume che ne fu tratto, Ten Days in a Mad-House) fu pubblicata sul quotidiano, destò grande scalpore, tanto che furono presi provvedimenti e vennero aumentate le sovvenzioni per migliorare le condizioni delle pazienti.

Sono felice di informare i lettori che, a seguito della mia indagine nel manicomio e della conseguente denuncia, la città di New York ha stanziato un milione di dollari in più all’anno per le cure delle persone mentalmente instabili. Così, ho quantomeno la soddisfazione di sapere che quei disgraziati hanno tratto, dal mio lavoro, un qualche vantaggio“.

Dal libro è stato tratto un film nel 2016– Ten days in a MadHouse di Timothy Hines – molto fedele alla cronaca di Nellie Bly.

Lorenza Inquisition

Le nigeriane – Chika Unigwe #recensione

On Black Sisters Street – Chika Unigwe

chika

LEGGERE IL MONDO: NIGERIA

Nel mio viaggio intorno al mondo sono già passata dalla Nigeria, con la splendida Chimamanda Ngozi Adichie, della quale ho letto Americanah e L’ibisco viola, che consiglio vivamente. C’è però un’altra golden girl nella letteratura contemporanea nigeriana, Chika Unigwe, della quale ho voluto leggere questo romanzo piuttosto controverso, dove parla di quello che sono per noi, nell’accezione più comune del parlato, le “nigeriane”: prostitute di colore. Il libro, basato su ricerche e interviste curate dall’autrice, racconta in forma di romanzo le storie di quattro giovani donne che vengono reclutate in diversi momenti e luoghi della Nigeria per essere spedite in Europa a prostituirsi. Nessuna è propriamente costretta con la forza a farlo, già in Africa viene spiegato loro quale sarà il loro destino se accettano; d’altro canto il reclutatore si guarda bene dal dire la verità su quanto poco saranno libere una volta entrate nel meccanismo. Tutte acconsentono per affrancarsi economicamente, e aderiscono a un contratto che prevede un rimborso delle spese per il passaporto, l’aereo e altre non precisate formalità burocratiche europee. Una volta giunte a destinazione, in questo caso il Belgio, nel quartiere a luci rosse di Anversa, scoprono che la somma dovuta all’organizzazione aumenta esponenzialmente attraverso meccanismi sanzionatori del tutto arbitrari: devono rimborsare la Madam che gestisce il loro appartamento e le spese per il cibo, poi pagare il subaffitto delle stanze per il sesso, cifre mensili che devono essere detratte dai loro guadagni, e che determinano la confusione e l’incertezza sul totale esatto da restituire per riscattare il “debito”, che ovviamente, in realtà, è interesse dell’organizzazione non sia mai estinto, o il più tardi possibile.

Chi si oppone a una politica di immigrazione seria in genere preferisce ignorare le tragiche forze che costringono una persona a rischiare la morte per arrivare nelle nostre terre dell’abbondanza, per non parlare degli orrori che attendono a volte i pochi fortunati che entrano. In questo libro la prospettiva è però leggermente spostata dall’autrice: una delle quattro protagoniste è vittima di abusi infantili, la seconda è una rifugiata politica che ha subito orrori inenarrabili prima di arrivare in Europa. Le altre due figure però sono sì ragazze povere, ma non indigenti, nè profughe in cerca di asilo. Efe, ragazza madre con un padre alcolista e tre fratellini minori, pur avendo un lavoro in Nigeria e una seconda entrata economica grazie alla pensione del genitore, accetta il suo destino all’estero a testa bassa, senza illusioni: vuole guadagnare il prima possibile tutti i soldi possibili, per mantenere a casa il figlio e i fratelli. Il suo sogno, il suo obiettivo, è affrancarsi per aprire a sua volta una casa di prostituzione, e arricchirsi così. E’ un personaggio forte, certamente non una vittima; quindi si crea una strana empatia per lei nel momento in cui si costringe a degradarsi per soldi, unita a un involontario ma credo umano disdegno per una persona che trova normale, come baratto, vendere il proprio corpo per un guadagno personale, invece di lavorare come fa il resto del mondo. Il fatto che abbia un figlio come spinta propulsiva primaria è parzialmente una giustificazione: perchè anche quando avrà ripagato il debito e il figlio in patria sarà felicemente sistemato, Efe continuerà a prostituirsi per soddisfare una serie di desideri materiali, oggetti, gioielli, vestiti costosi che la mediocrità economica di un lavoro meno avvilente ma probabilmente umile (visto il suo curriculum inesistente in altri campi) le impedirebbe di ottenere.

Chika Unigwe mostra una profonda comprensione per la povertà e le brame che scatena, e nonostante una certa altalena descrittiva mentre ci accompagna lungo la conoscenza di queste quattro donne, non sempre riuscitissima a mio parere, trasmette con grande sensibilità la particolare dicotomia di quanto sia miracoloso e al tempo stesso orribile il mondo Occidentale per chi arriva qui cercando un futuro. On black sisters street è un libro diviso nei due mondi, innanzitutto il vivido, coloratissimo, ancora retrogrado universo africano. E quindi la spiritosa saggezza di qualche matrona che ha già visto tutto dalla vita e dagli uomini; la povera rassegnazione di un uomo che vorrebbe studiare ma deve passare la vita ad arrabattarsi per mantenere i suoi cinque fratelli, già spento ancora prima della maturità, poichè a quel punto non sa immaginare un altro futuro; l’arroganza ignorante di certi uomini ricchi che trovano normale usare i soldi per sfruttare giovani donne, pur avendo loro stessi figlie e sorelle sinceramente amate; la triste realtà, infine, di chi è troppo povero per immaginare un’esistenza che non comporti una prevaricazione nei riguardi di chi è più debole, perchè la vita ha insegnato solo rabbia e sopraffazione.

Poi c’è l’Europa, così fredda eppure bella ugualmente, con le signore in stazione che si stringono forte la borsetta addosso se ti avvicini anche se parli un po’ la lingua e stai solo chiedendo un’informazione, e i giovani che ti guardano con ammirazione per la tua bellezza esotica; con le vetrine che espongono infinite cose belle che fanno sognare, e cibo a volontà, e monumenti e cattedrali che ti fanno sentire insignificante; ci sono le telefonate a casa ai genitori, che hanno fatto finta di credere che tu sia partita per l’Europa per fare la baby sitter, e che a volte hai un’urgenza insopprimibile di sentire anche mentre stai lavorando, anche se la loro voce quando ti parlano ormai ha sempre una piattezza di fondo che ti fa torcere dall’ansia che sappiano, e ti tormenti su quanto abbiano capito persino stanca morta dopo il lavoro; ma non chiamarli non è possibile, ti sono essenziali anche solo così. C’è la bellezza del mercato dei fiori e la cacofonia di un autobus notturno, e la tristezza di vivere e morire soli, senza che nessuno osservi il lutto per te o con te, senza il sostentamento vitale di famiglia e amici, imprescindibile nel tuo vicinato in Africa.

E’ un romanzo scritto con passione, grazia, e una certa levità nonostante gli orribili argomenti sviluppati. Ha un difetto nella struttura della narrazione, ogni capitolo dedicato a un personaggio diverso, senza soluzione di continuità con le singole storie e il susseguirsi di passato e presente, alla fine per me stancante. Ma è un libro che consiglio, perchè offre un onesto sguardo su una verità che ci tocca da vicino, nelle sordida realtà delle nostre periferie e squallide strade del piacere a pagamento.

Lorenza Inquisition

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