The dead lake – Hamid Ismailov #hamidismailov #Uzbekistan

*Leggere il mondo: Uzbekistan

Hamid Ismailov è uno degli scrittori Uzbeki moderni più pubblicati, ma solo all’estero: forzato all’esilio nel 1992 con la motivazione di avere “inaccettabili tendenze democratico-filo-Occidentali”, non è più stato riammesso nel suo Paese; i suoi lavori sono tradotti in Spagna, Regno Unito, Francia e Germania, ma a tutt’oggi la sua intera produzione è bannata in Uzbekistan, ed è anzi proibito anche solo farne il nome in articoli di giornale o qualsiasi altra pubblicazione.

Peirene Press è una casa editrice indipendente, molto giovane, che si prefigge di pubblicare letteratura contemporanea di tutto il mondo; lanciano solo tre titoli all’anno, di autori poco noti e meno ancora tradotti in Occidente, ogni anno le tre opere pubblicate connesse da un particolare tema. Se leggete in inglese e vi piace l’idea di esplorare nuovi mondi, consiglio una visita al loro sito.

La combinazione di questi due fattori, scrittore Uzbeko bannato e casa editrice alternativa mi ha portato alla lettura di The dead lake, Il lago morto, una novella ambientata in quella parte remota del nord est del Kazakhistan (allora sovietico) dove le armi atomiche venivano testate dal regime comunista nella corsa all’armamento nucleare. Dal 1949 al 1989, ho scoperto leggendo l’introduzione, più di 450 esplosioni furono lanciate nelle steppe di questa regione sperduta delle steppe, vicino al Semipalatinsk Nuclear Test Site (SNTS); e non è poi una regione così sperduta, se nel corso degli anni più di 200.000 civili Kazakhi sono stati fatalmente esposti a radiazioni letali, e nell’area interessata i nocivi effetti delle propagazioni si riscontrano nella popolazione ancora oggi.

La storia di The dead lake ha al centro questa sequenza di fatti: in un’area non troppo lontana dal sito per i test, vicino a un misero snodo ferroviario, vivono due piccole famiglie, a distanza di un giorno di cavallo da quello che si capisce sia il Lake Chagan, creato deliberatamente nel 1965 con una bomba atomica per testare l’utilizzo delle armi nucleari con scopi pacifici di movimento terra.

L’esistenza di queste famiglie si snoda ancora secondo gli antichi usi della cultura della steppa, un mondo brutale in cui i nonni sono gli indiscussi capofamiglia e le correzioni corporali sono all’ordine del giorno, dove per andare a scuola si devono percorrere 10 chilometri a piedi o a cavallo, e se il cavallo non c’è o il nonno non ha voglia di perdere tempo, il nipote salta un intero trimestre invernale, dove le donne macellano i montoni e cucinano in silenzio per intere giornate usando indescrivibili quantità di latte fermentato, in cui è necessario affrontare vermi testinali e togliersi pidocchi e zecche è affare settimanale. La scrittura in qualche punto è evocativa, soprattutto quando descrive certe giornate ventose nella steppa sconfinata, il sole che splende sulle corse dei bambini, cammelli, asini e cani quieti compagni di vita famigliare. C’è un tema ricorrente nella chiara rivalità tra modernità e tradizione, per esempio i nonni con la loro passione per la poesia orale epica, e i figli che comprano la televisione.

La storia in sè parte bene, per virare verso un tentativo di realismo magico à la Uzbekistan che forse non ho capito bene, concludendosi con un’aria di tragedia da Malavoglia che lascia davvero scorati. 

I pargoli delle due famiglie della steppa, il maschietto Yerzhan e la bambina Aisulu, crescono insieme, compagni di culla prima, di giochi e di scuola poi. Yerzhan è un prodigio musicale, dapprima sulla vecchia dombra del nonno, una sorta di liuto della tradizione Kazhaka; ma poi è così bravo, anche solo a orecchio, che gli faranno prendere lezioni di violino, contro il parere del nonno che vede la perdita di una tradizione famigliare, da un manutentore bulgaro che ha studiato musica in gioventù in Russia. Le famiglie sono a conoscenza della pericolosità del territorio in cui vivono, uno degli zii di Yerzhan lavora in una delle centrali nucleari, e tutti vivono nel terrore di vedere un fungo atomico alzarsi all’orizzonte. Un giorno, quando i due ragazzini sono ormai dodicenni, durante una gita al lago proibito, dal quale tutti sanno di non dover mai bere o toccare l’acqua perchè velenosa, Yerzhan decide di dare una prova di coraggio per impressionare la ragazzina che ama, e ci si butta. Ne emerge apparentemente sano, ma da quel momento smetterà di crescere, per sempre imprigionato nel corpo di un moderno, atomico Peter Pan. Il narratore del libro lo incontra così, un ragazzino ambulante che vende yogurth fermentato in una stazione desolata della steppa, che all’anagrafe registra ventinove anni, e che a poco a poco gli racconterà la sua storia.

E’ un libro che sopra a tutto ho trovato un po’ deprimente, ma sono comunque contenta di averlo letto. Non è una lettura che cambia la vita, ma ha alcuni passaggi affascinanti, e parla di gente ai margini della nostra idea di società, e generalmente ignorata da letteratura e mezzi di comunicazione, ed è stato interessante soggiornare dalle loro parti.

Inoltre ho scoperto l’esistenza del cantante/attore americano comunista Dean Reed detto l’Elvis Rosso, e mi si sono aperti nuovi orizzonti.

 Lorenza Inquisition

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Le nigeriane – Chika Unigwe #recensione

On Black Sisters Street – Chika Unigwe

chika

LEGGERE IL MONDO: NIGERIA

Nel mio viaggio intorno al mondo sono già passata dalla Nigeria, con la splendida Chimamanda Ngozi Adichie, della quale ho letto Americanah e L’ibisco viola, che consiglio vivamente. C’è però un’altra golden girl nella letteratura contemporanea nigeriana, Chika Unigwe, della quale ho voluto leggere questo romanzo piuttosto controverso, dove parla di quello che sono per noi, nell’accezione più comune del parlato, le “nigeriane”: prostitute di colore. Il libro, basato su ricerche e interviste curate dall’autrice, racconta in forma di romanzo le storie di quattro giovani donne che vengono reclutate in diversi momenti e luoghi della Nigeria per essere spedite in Europa a prostituirsi. Nessuna è propriamente costretta con la forza a farlo, già in Africa viene spiegato loro quale sarà il loro destino se accettano; d’altro canto il reclutatore si guarda bene dal dire la verità su quanto poco saranno libere una volta entrate nel meccanismo. Tutte acconsentono per affrancarsi economicamente, e aderiscono a un contratto che prevede un rimborso delle spese per il passaporto, l’aereo e altre non precisate formalità burocratiche europee. Una volta giunte a destinazione, in questo caso il Belgio, nel quartiere a luci rosse di Anversa, scoprono che la somma dovuta all’organizzazione aumenta esponenzialmente attraverso meccanismi sanzionatori del tutto arbitrari: devono rimborsare la Madam che gestisce il loro appartamento e le spese per il cibo, poi pagare il subaffitto delle stanze per il sesso, cifre mensili che devono essere detratte dai loro guadagni, e che determinano la confusione e l’incertezza sul totale esatto da restituire per riscattare il “debito”, che ovviamente, in realtà, è interesse dell’organizzazione non sia mai estinto, o il più tardi possibile.

Chi si oppone a una politica di immigrazione seria in genere preferisce ignorare le tragiche forze che costringono una persona a rischiare la morte per arrivare nelle nostre terre dell’abbondanza, per non parlare degli orrori che attendono a volte i pochi fortunati che entrano. In questo libro la prospettiva è però leggermente spostata dall’autrice: una delle quattro protagoniste è vittima di abusi infantili, la seconda è una rifugiata politica che ha subito orrori inenarrabili prima di arrivare in Europa. Le altre due figure però sono sì ragazze povere, ma non indigenti, nè profughe in cerca di asilo. Efe, ragazza madre con un padre alcolista e tre fratellini minori, pur avendo un lavoro in Nigeria e una seconda entrata economica grazie alla pensione del genitore, accetta il suo destino all’estero a testa bassa, senza illusioni: vuole guadagnare il prima possibile tutti i soldi possibili, per mantenere a casa il figlio e i fratelli. Il suo sogno, il suo obiettivo, è affrancarsi per aprire a sua volta una casa di prostituzione, e arricchirsi così. E’ un personaggio forte, certamente non una vittima; quindi si crea una strana empatia per lei nel momento in cui si costringe a degradarsi per soldi, unita a un involontario ma credo umano disdegno per una persona che trova normale, come baratto, vendere il proprio corpo per un guadagno personale, invece di lavorare come fa il resto del mondo. Il fatto che abbia un figlio come spinta propulsiva primaria è parzialmente una giustificazione: perchè anche quando avrà ripagato il debito e il figlio in patria sarà felicemente sistemato, Efe continuerà a prostituirsi per soddisfare una serie di desideri materiali, oggetti, gioielli, vestiti costosi che la mediocrità economica di un lavoro meno avvilente ma probabilmente umile (visto il suo curriculum inesistente in altri campi) le impedirebbe di ottenere.

Chika Unigwe mostra una profonda comprensione per la povertà e le brame che scatena, e nonostante una certa altalena descrittiva mentre ci accompagna lungo la conoscenza di queste quattro donne, non sempre riuscitissima a mio parere, trasmette con grande sensibilità la particolare dicotomia di quanto sia miracoloso e al tempo stesso orribile il mondo Occidentale per chi arriva qui cercando un futuro. On black sisters street è un libro diviso nei due mondi, innanzitutto il vivido, coloratissimo, ancora retrogrado universo africano. E quindi la spiritosa saggezza di qualche matrona che ha già visto tutto dalla vita e dagli uomini; la povera rassegnazione di un uomo che vorrebbe studiare ma deve passare la vita ad arrabattarsi per mantenere i suoi cinque fratelli, già spento ancora prima della maturità, poichè a quel punto non sa immaginare un altro futuro; l’arroganza ignorante di certi uomini ricchi che trovano normale usare i soldi per sfruttare giovani donne, pur avendo loro stessi figlie e sorelle sinceramente amate; la triste realtà, infine, di chi è troppo povero per immaginare un’esistenza che non comporti una prevaricazione nei riguardi di chi è più debole, perchè la vita ha insegnato solo rabbia e sopraffazione.

Poi c’è l’Europa, così fredda eppure bella ugualmente, con le signore in stazione che si stringono forte la borsetta addosso se ti avvicini anche se parli un po’ la lingua e stai solo chiedendo un’informazione, e i giovani che ti guardano con ammirazione per la tua bellezza esotica; con le vetrine che espongono infinite cose belle che fanno sognare, e cibo a volontà, e monumenti e cattedrali che ti fanno sentire insignificante; ci sono le telefonate a casa ai genitori, che hanno fatto finta di credere che tu sia partita per l’Europa per fare la baby sitter, e che a volte hai un’urgenza insopprimibile di sentire anche mentre stai lavorando, anche se la loro voce quando ti parlano ormai ha sempre una piattezza di fondo che ti fa torcere dall’ansia che sappiano, e ti tormenti su quanto abbiano capito persino stanca morta dopo il lavoro; ma non chiamarli non è possibile, ti sono essenziali anche solo così. C’è la bellezza del mercato dei fiori e la cacofonia di un autobus notturno, e la tristezza di vivere e morire soli, senza che nessuno osservi il lutto per te o con te, senza il sostentamento vitale di famiglia e amici, imprescindibile nel tuo vicinato in Africa.

E’ un romanzo scritto con passione, grazia, e una certa levità nonostante gli orribili argomenti sviluppati. Ha un difetto nella struttura della narrazione, ogni capitolo dedicato a un personaggio diverso, senza soluzione di continuità con le singole storie e il susseguirsi di passato e presente, alla fine per me stancante. Ma è un libro che consiglio, perchè offre un onesto sguardo su una verità che ci tocca da vicino, nelle sordida realtà delle nostre periferie e squallide strade del piacere a pagamento.

Lorenza Inquisition

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