Cancroregina – Tommaso Landolfi #Adelphi #TommasoLandolfi #Cancroregina

Un uomo che sta meditando di suicidarsi, riceve la visita di uno sconosciuto, scienziato fuggito anni fa da un manicomio, che gli propone di accompagnarlo in un viaggio insolito.
Ha dedicato tutti gli anni della sua ritrovata libertà alla costruzione di un‘astronave, Cancroregina, che lo condurrà “nella “luna e chiede di essere accompagnato.
Risolti i dubbi sulla follia dello sconosciuto, alla vista dell’astronave, lo segue, in un viaggio che si rivelerà diverso da come lo aveva auspicato.
La follia del suo compagno di viaggio si annuncia dopo poco tempo e la pericolosità del suo stato mentale, lo costringerà a compiere una scelta irrevocabile.
L’astronave non risponderà ai suoi comandi e, cambiando direzione, proseguirà in un moto perpetuo gravitazionale intorno alla Terra.
La scelta irrevocabile definisce anche un cambio di registro letterario nel romanzo, passando da una narrazione fantascientifica ad un flusso di coscienza esasperato.
Si passa dallo stupore alla disperazione, nel tentativo di trovare risposte possibili alla condizione di un uomo esiliato dalla vita ma non ancora morto.
Le risposte lo conducono al limite della follia e a percorrere un viaggio che si chiude da dove era partito, giungendovi “diverso”.
L’approccio fantascientifico è solo un pretesto per Landolfi per rappresentare un viaggio mentale che, staccandosi dalla realtà, consente di vedersi e vedere il mondo con occhi diversi.
Quella che inizialmente si prospettava come una via di fuga, diventa una prigione.

“Come si può vivere così, senza nulla, senza una lontana speranza? Io, in realtà, aspetto il coraggio di morire”.

Il viaggio si tramuta in perenne mortale immobilità.
Al protagonista non rimane altro che la parola. Si trova, così, ad ammettere a sè stesso di amare la vita, proprio quando la sua si fa disperata.
La condanna alla “non-vita” lo conduce a ipotizzare che vi sia pace, dopo la morte; ipotesi che, poche pagine dopo, schernisce. Prova nostalgia per tutto ciò che gli procurava dolore, nostalgia per una presenza impossibile ora.
Ricorda, però, di non sentirsi simile a nessuno laggiù.
La razionalità lo abbandona e concede ad una forza trascendente la preghiera di salvarlo.

Landolfi racconta, con ironia partecipata, la condizione dell’uomo che vorrebbe dominarsi e dominare, ma che finisce per assistere al proprio naufragio, e alla propria resa.
E’ una confessione la sua, velata in un gioco di riflessi che mostra e nasconde l’autore in un involucro espressivo di alto livello; unisce termini desueti ad altri, inventati da lui, creando un linguaggio travolgente.
Cancroregina è fastidioso.
Non insegue verità, vuole oltrepassarle.
Cancroregina è liberatorio.
Il suo urlo disperato arriva a farci sentire il nostro
Cancroregina è poetico.
Solo vicino ai confini dei limiti, si trova la bellezza.

Tommaso Landolfi (Pico, 9 agosto 1908 – Ronciglione, 8 luglio 1979) è stato uno scrittore, poeta, traduttore e glottoteta.
Cancroregina è del 1949.

Disturbo della quiete pubblica – Richard Yates #recensione #RichardYates

yates

Sullo sfondo dell’ottimismo e della prosperità dell’era Kennedy si disegna la storia dell’ambizione frustrata – e della discesa nella follia – di John Wilder, impiegato che sogna il successo come produttore cinematografico e invece conoscerà soltanto l’angoscia dell’ospedale psichiatrico e le manipolazioni di Hollywood.
« Per Janice Wilder le cose cominciarono ad andare storte nella tarda estate del 1960. E il peggio, come non fece che ripetere in seguito, il lato più orribile della faccenda è che tutto parve capitare senza il minimo segno premonitore »

Comincia così, con una telefonata del marito, John Wilder, che si rifiuta di rientrare a casa dopo due settimane trascorse fuori per lavoro.
Le vicende che coprono un arco di 10 anni, familiari, extra coniugali, lavorative e sociali di un pubblicitario di successo newyorkese nell’America degli anni ’60, col sottofondo ombroso e opprimente di un’eventuale malattia mentale.
Yates è un narratore eccezionale, e picchia forte in questo romanzo, picchia contro l’ipocrisia dell’America di quegli anni, dove tutte le famiglie sembrano uscire da una qualche pubblicità del Mulino Bianco ma che nascondono neanche troppo in profondità dei limiti esistenziali irrisolvibili. John Wilder te lo immagini come in un quadro di Edward Hopper, seduto al tavolino di un bar alla periferia di una metropoli americana, il bicchiere in mano, lo sguardo perso nel vuoto: forse pensa al passato, ai genitori milionari, alla sua giovane amante, alla moglie, al lavoro, ai suoi sogni di diventare produttore cinematografico, al troppo alcool, alla paura di tornare delirante nel reparto psichiatrico di un ospedale dove è già stato ricoverato e dove probabilmente finirà i suoi giorni.
Le ultime 40 pagine sono un capolavoro assoluto, ancora non riesco a togliermi di dosso l’angoscia profonda e il dolore che mi hanno provocato. Yates è un gigante, ma questo si sapeva già.
« Una volta individuata la causa di una rabbia irrazionale, questa non sarebbe dovuta cessare? Lo sapevano tutti, no? E allora perché non funzionava? »

Daniele Bartolucci