Wonder – R. J. Palacio #wonder #recensione

Trainato da un film ormai famoso che promette di essere bello e commuovente e strappacuore come neanche Cuore (e vi ho fatto pure la rima), Wonder è oggi  un libro di cui si sente parlare ovunque, e quindi nel mio mondo di misantropa delirante che schifa i best seller a rigor di logica avrei dovuto evitarlo. Tuttavia sono anche una mozzarellona che piangeva alle pubblicità della Barilla quando c’erano i gattini persi sotto la pioggia e le bambine cinesi adottate, e voglio assolutamente vedere il film, e quindi ovviamente prima ho letto il libro.

Che è un bel libro, per una volta credete alla massa: è scritto più che decentemente, ha una bella storia di empatia e contatto umano, predica il semplice ma fruibile messaggio che è meglio essere gentili, sempre, e che la vera bellezza non è quella del cuore. Che c’è da non amare in un libro così?

Il protagonista è August, un bambino nato con una grave deformazione craniale congenita; la storia si concentra su un anno particolare della sua vita, quando i genitori, dopo averlo fatto studiare a casa per tutto il periodo delle elementari a causa delle varie operazioni e problemi di salute, nel momento in cui si stabilizza decidono di iscriverlo alla prima media, in un cosciente tentativo di rendere la sua vita il più normale possibile, compatibilmente con il fatto che non sarà mai un ragazzino “normale”. Questo, però, ed è un primo punto a favore del libro, viaggia in due sensi: August è straordinario in vari aspetti, non solo perchè straordinariamente strano. E’ tranquillo, gentile, difficile all’ira e al risentimento; è ovviamente molto maturo per la sua età, avendo visto cose che quasi tutti i bambini della sua età ignorano per molti molti anni. Sa di apparire come un mostro, e cerca prima di tutto di accettare sè stesso, sapendo che sarà molto difficile che qualcuno lo favorisca così, senza riserva, senza prima conoscerlo. Cioè già sa che il mondo giudica dall’apparenza, e lo accetta, anche con un certo fatalismo, non scevro da ironia. A un compagno che gli chiede se non sia possibile un intervento di ricostruzione, lui risponde ridendo che “questa faccia è già il risultato di chirurgia plastica. Non si diventa così carini senza duro lavoro”.

Wonder è strutturato come una serie di racconti lunghi, capitoli narrati in prima persona non solo da August, ma da alcuni altri protagonisti della sua vita: sua sorella, due suoi amici a scuola, il ragazzo di sua sorella, e poi di nuovo a chiudere August. E’ un romanzo destinato a lettori giovani, narrato in prima persona da una serie di ragazzini che parlano -e soprattutto pensano- come ragazzini, ognuno con una voce abbastanza distinta non limitata dall’età. E proprio per il fatto che la narrazione prevede diversi punti di vista, veicola in modo importante il concetto che le nostre azioni hanno effetti sulle vite degli altri, e che è necessario sforzarsi di guardare oltre la superficie delle cose per capire realmente una persona.

Io ho potuto rilevare solo due leggeri difetti in Wonder: uno è di struttura, con il fatto che si raccontano diversi punti di vista riguardanti alcuni singoli avvenimenti, è inevitabile che ci sia qualche ripetizione. L’altro problema è credo strettamente legato al cinismo di una lettrice in età non più tanto rampante: è un libro troppo troppo buonista. I personaggi positivi sono solari, intensi, dolcissimi, perfetti: sono gli insegnanti e gli amici e i vicini di casa che vorresti avere nella tua vita. La fine poi è spettacolare, americana al duemila per mille, con pure un tocco di Bollywood con gente che balla, scatta in piedi, coriandoli, lacrime, girotondi, cappelli lanciati in aria, abbracci e baci.

Detto ciò, mi è piaciuto comunque tanto; e poi è un libro per giovanissimi, ed è giusto che ci sia qualche lieto fine alla loro età.

Se avete ragazzini per casa, fateglielo leggere, davvero. Trabocca di messaggi importanti che vanno trasmessi e discussi: la forza del valore dell’amicizia, i benefici della lealtà e del coraggio, l’importanza dell’empatia e della gentilezza, e di giudicare una persona per come è, non per come appare, sperando che anche gli altri facciano altrettanto con noi.

E’ un libro buono. Forse troppo buono, ok. Ma a noi mozzarellone ogni tanto fa bene un’iniezione di mondi Disney.

Lorenza Inquisition

L’ipnotista – Lars Kepler #ipnotista #recensione

Vengo oggi a parlarvi di un libro che mi ha ammorbato come una nuova sceneggiatura di Ozpetek prima maniera (ma anche seconda e terza), una pesantezza che non so dire, un gatto di marmo attaccato ai maroni. So che a qualcuno questo autore e questo libro sono piaciuti, non ve ne abbiate a male ma per me è stato come un lunedì mattina in tangenziale con pioggia, nebbia, incidenti e una corsia chiusa per lavori in corso. Un dolore fisico inenarrabile, la morte dentro, una cosa da raccontare ai nipoti accostandola alle grandi tragedie dell’umanità: un libro brutto, brutto veramente, e pure LUNGO.

Questo romanzo è del 2009, uscito in italia nel 2011 (secondo me per una serie di suicidi o abbandono del lavoro dei traduttori che arrivati a metà di questo orrore indicibile preferivano i campi elisi o dedicarsi all’allevare acari). Io non l’ho comprato subito, avendoci questo atteggiamento un po’ snob verso i battage delle case editrici, nuovo caso letterario nordico, nuovo stieg larsson, nuovo quaellà. Però a volte -non sempre- i battage non sono proprio sbagliati, mi dico (risate finte di sottofondo da sit-com americana) e quindi ignara mi sono avviata incontro al mio destino e l’ho comprato. Poi alcuni di voi qua nel gruppo ne parlavano bene e la sventurata qui presente rispose Ok lo prendo. E non so mica se vi perdono.

L’autore si pregia di usare il primo tempo indicativo per quasi tutto il libro (che è lungo, non dimentichiamolo 580 pagine): fa freddo, è seduto al tavolo, pensa. E’ uno stile narrativo che in teoria ti spinge più in fretta dentro la storia, ti fa immedesimare più rapidamente, aiuta la caratterizzazione dei personaggi. Se sei bravo, certo. Se sei Umberto Eco nel Nome della rosa. Se no, sei bloccato in uno stato di irritante perenne immediatezza e 580 pagine sono un vuoto esistenziale incolmabile.

Non scrive bene il Kepler, è prolisso, impacciato, banale. E non è neanche un esempio di scrittura “nordica” resa male, perchè Larsson e Mankell (quest’ultimo di molto superiore come scrittore, per me) non perdono per niente nella traduzione, piacciono, quindi no, non è quello.

E quindi, per me qua il Kepler si è già giocato un terzo di quelle che sono le componenti essenziali di un buon thriller, che deve avere almeno tre cose che corrano, e corrano BENE, per funzionare: una gran storia, bei personaggi, e la scrittura.

E tanto per chiarire, io ho finito questo pezzo di ghisa pesante come un giovane di sinistra alternativo con sciarpa etnica lunga fino ai piedi che frequenta lettere indirizzo filosofia e/o architettura (ma dippiù lettere indirizzo filosofia) e ti allunga un volantino sull’autocoscienza, solo ed esclusivamente perchè lo volevo mettere nella Disfida, alla voce “Un libro all’ultimo posto della tua lista di libri da leggere”. Se non fosse stato per questo motivo, l’avrei scagliato come il muro con violenza per poi infilzarlo con un paletto e seppellirlo in un cimitero sconsacrato, giusto per essere sicura che non ritornasse mai più. Io sono della scuola Dorothy Parker, io.

EEEEEENIWAY.

La storia. La storia, come dire. La storia, volendo essere onesti, è buona per i primi e gli ultimi capitoli. In mezzo, 500 pagine con una trama che potrebbe fare invidia a un reality sulle perquisizioni in aeroporto, o sugli abiti da sposa restaurati.

I personaggi. Quindi. Signore pietà, che massa di inetti sfigati incompetenti e mettiamoci pure stupidi. L’ispettore principale che diventerà pure protagonista di una serie di libri (non esistono parole sufficienti per spiegare l’orrore che questa prospettiva suscita in me) Joona Linna, che in teoria dovrebbe essere il protagonista ma in realtà viene scansato dall’ipnotista, è reso talmente bene che dopo 300 pagine sappiamo solo che ha gli occhi grigio chiaro ed è biondo, e finnico, non svedese. Altro non si sa, com’è, che vuole, che pensa, che gli è successo, è sposato, ha figli, un chezz: si capisce solo che è un egomaniaco che ogni volta che ha un’intuizione vincente si fa ripetere dall’interlocutore quanto è stato bravo: E allora avevo ragione? dillo: Avevo ragione. Scarpate nei denti subito.

Poi abbiamo il vero protagonista del romanzo, l’ipnotista esimio prof dott direttor. ing. gran. ladr. di gran croc. Erik Maria Brandauer Bark di staceppa, un piagnone, drogato, arrogante inetto povero bastardo, che trascorre il suo inutile tempo nel libro occupando pagine e pagine con descrizioni delle droghe che prende, delle dormite che si fa in quanto sedato, di quanto sia pentito di aver scelto di fare l’ipnotista per un grosso GROSSO casino successo. E a questo grosso casino si allude, ammicca, accenna, abbozza per trecento pagine circa finchè pensano bene di buttare finalmente in mezzo lo spiegone, che dura circa 100 pagine, e tu in realtà ti sei già dimenticato cos’era che stava capitando prima di sto mappazzone inutile e in generale comunque non era che ti importasse poi così tanto, e insomma capisci però che in effetti sto pezzo di pirla ha commesso così tante marchianate nella sua carriera che evidentemente il primo grosso casino è stato prendere l’abilitazione al Cepu, per cominciare. Generale disgusto e rumorosi rutti al suo indirizzo.

L’altra coprotagonista è la moglie cretina dell’ipnotista, una scema mentalmente instabile che dopo dieci anni trascorsi da una scappatella del marito ancora non si fida e non l’ha perdonato. Però ci sta insieme. Però lo odia, e poi lo ama, e poi soffre. E piange. E non si fida. E gli controlla il telefono. E tu dieci anni fa mi hai tradito, mi voglio separare. Forse no. Sì, mi voglio separare. No. Sì. E avanti così, altre 580 pagine, intervalli di cinque/sei capitoli al massimo.

Questi due sfigati trallaltro oltre a stare insieme non si sa bene perchè, passano tutto il tempo a non parlarsi. Cioè il Kepler usa questo espediente narrativo singolarmente irritante di farli litigare senza che si parlino mai: lei sospira e lui prende un sonnifero, lei piange e lui esce di casa, lei vuole litigare e lui non ha voglia di parlare, lasciami stare.

Ci sono poi altri personaggi tutti abbastanza sgradevoli, o macchiettistici, tutti leggermente insani e abbastanza sadici; due o tre sottotrame, delle quali una non viene neanche chiusa; la storia principale viene più o meno abbandonata a metà libro, e ripresa in fretta alla fine piazzandoci due boiate a caso per venirne a capo. Poi una serie infinita di inverosimiglianze, e se le ho notate io che per metà del tempo leggevo cercando di non addormentarmi dalla noia o stando su Fb nel frattempo, vuol dire che erano proprio marchiane.

Tutti i personaggi hanno piccoli o grandi problemi di sanità mentale, sono aggressivi, ossessivo compulsivi, hanno avuto complessi di Edipo mai risolti, problemi relazionali, tendenze narcisistiche, per tutto il libro, e avanti così all’infinito. Tutti provano a telefonarsi per minuti, mezz’ore, ore: nessuno risponde mai, nessuno sente, nessuno riesce mai ad arrivare in tempo al cellulare; tutti i messaggi vanno in segreteria, che peraltro nessuno ascolta, non c’è mai una catafottuta volta in cui una telefonata non vada a vuoto. Una massa di sfigati isterici, e in mezzo parole, parole, parole, descrizioni inutili, storie che non conducevano da nessuna parte, se non a chiedersi il perchè di tanto dolore nel mondo.

Quindi, la storia no, la scrittura nemmeno, i personaggi assolutamente manco poo cazzo. Cosa rimane da dire?

Che Lars Kepler non è UNO giallista, è lo pseudonimo per una coppia di scrittori, marito e moglie, che hanno fino al 2009 prodotto tutt’altro nelle rispettive carriere, e poi un bel giorno hanno deciso a tavolino di scrivere un thriller per salire sul treno di Uomini che odiano le donne, e lo hanno fatto. L’hype che ha preceduto questo libro è stato virale, te lo trovavi ovunque, era uno di quei libri di cui tutti parlavano.

E ne hanno parlato, e ha avuto successo, e che vi devo dire: per me è scritto male e pensato peggio, spero che nei prossimi libri (L’orrore. L’Orrore.) si telefonino di più i due autori per aggiornarsi sulle rispettive parti prodotte. Perchè io sono uscita da questa fatica con la netta sensazione che questo sia un libro scritto da due persone che l’hanno assemblato alla cacchio, buttando nel mezzo un po’ di gore, sensazionalismo vario, manciate di Svezia e nordicicità, allusioni a indagini poliziesche e promesse di very belle trame thriller.

E c’è gente che ha dato cinque stelle a ‘sto libro, CINQUE STELLE zio cane! voi siete pazzi. Voi avete in testa due inseparabili al posto dei neuroni, uno è morto e l’altro è evidentemente sclerato. Io vi ammazzo. Avete fatto salire questa roba nelle classifiche dei best seller, e ora c’è gente inerme che si aggira in libreria senza sapere e potrebbe pure comprarlo, perpetuandone il successo al fianco dei libri di cucina (ah ah ah scusate l’eufemismo) della Parodi.

E per il resto, ne sono uscita con il confuso desiderio di mollare la macchina in coda in tangenziale e tornare a casa a piedi tagliando per il Naviglio, facendo dei grossi diti medi in direzione della Svezia.

Mai più, per la carità diddio.

Lorenza Inquisition