“È invecchiata in maniera drammatica, proprio quest’anno, come se uno strato d’aria fosse filtrato da sotto la sua pelle. Adesso è indurita, stanca. Ha cominciato a sembrare scolpita nel marmo grigio bianco, molto poroso. È ancora regale, ancora squisitamente costruita, ancora in possesso della sua formidabile radiosità lunare, ma improvvisamente non è più bella.”

(Premio Pulitzer 1999)
Non mi sento degna di scrivere un commento, una recensione, o come la si voglia chiamare. Non pensavo nemmeno che fosse possibile andare tanto al di là, superare con questa determinazione e delicatezza qualsiasi confine psicologico e umano.
Los Angeles, anni 50: Laura Brown finge di essere una perfetta madre per il piccolo Richard, un’impeccabile custode del focolare domestico, e una pronta, amorevole moglie per il marito Dan, reduce di guerra e onesto compagno. Ma lei non è una madre, non è una moglie; non è una domestica. Tutta la facciata è tenuta in piedi con uno sforzo recitativo malcelato, in un continuo sdoppiamento in cui la realtà è soltanto superficiale, e più che vissuta, non può che essere letta. Come una spettatrice obbediente, che non partecipa. E la sensibilità letteraria, la fragilità psicologica e il continuo reflusso nella propria dimensione egocentrica, porteranno questa donna a scivolare lentamente verso l’inevitabile.
Richmond, periferia di Londra, 1923: Michael Cunningham ci regala il cameo stilisticamente perfetto di una giornata in casa Woolf, rendendo con squisita sensibilità la tenera intesa coniugale tra Virginia e Leonard, i piccoli dissapori domestici, una visita della sorella Vanessa per una tazza di thè e la tranquilla morte su un letto di rose di questa vita forzatamente serena, forzatamente ordinaria. Virginia Woolf è stata portata in periferia nella speranza di un risanamento, di un riposo dalle emicranie che le colonizzano il cranio come un virus, facendo pulsare il mondo intorno a lei di un’ ”infettante lucentezza”, una luce intrisa di un dolore insopportabile, troppo vivido per non uscirne coperta di sangue. Ma Virginia sente il richiamo della vita, del cuore caotico e pulsante della città, dove le emozioni e le sensazioni si accavallano, e l’emicrania sta in agguato. Vuole vivere, vuole soffrire, piuttosto che, tranquillamente, morire.
New York, fine del XX secolo: Clarissa Vaughan, una bella donna di mezza età appena al limite del confine con il declino della vita, assapora lo splendore fresco di una azzurra mattina di giugno, in cui esce dal portone per andare a comprare le rose. Darà una festa per il suo antico amante e intimo amico Richard, malato di AIDS terminale, poeta visionario e ormai consumato dalla follia. L’attesa della festa, così traboccante di splendore, di miseria e vita, si trasformerà in tragedia. Ciascuno dei tre momenti temporali si risolve in un singolo giorno, e tutti e tre abbracciano il filo rosso de La Signora Dalloway, romanzo che Virginia Woolf nel 1923 ha appena cominciato a scrivere e la cui trama, che Virginia immagina attraverso le sue folgorazioni domestiche – accanto a un piccolo tordo morente, in un bacio affamato e pieno di vita appena posato sulle labbra della sorella, e davanti alla finestra, tra i rettangoli luce lunare che vengono cancellati sul tavolo dal ramo appena fuori di un albero cadenzato-, anticipa e rivela in gioco di specchi la vicenda di tutti e tre i personaggi di Cunningham . E infine il Richard di Clarissa, che è anche quel “qualcuno dal corpo forte ma dalla mente fragile; qualcuno con un tocco di genio, di poesia, investito dalle ruote del mondo, dalla guerra e dal governo, dai dottori; qualcuno che è, tecnicamente parlando, folle, perché vede significati dappertutto, sa che gli alberi sono esseri sensibili e che i passeri cantano in greco”, concepito dalla mente di Virginia, che si inserirà alla fine del romanzo in modo tragico e simbolico, chiudendo in un cerchio perfetto l’inizio.
Concludo dicendo che mentre lo leggevo sono rimasta scioccata da come Cunningham sia riuscito a penetrare, attraverso la Letteratura, le più intime sfumature psicologiche della sensibilità di queste donne, delle loro vite, dei loro pensieri, delle loro aspirazioni, dei loro fallimenti, e che lo abbia fatto con uno stile che mi sento di definire etereo, fatto di una serie di fotogrammi intatti e puri, e un omaggio va all’uso di metafore ricche e rigogliose, che hanno conferito luci più intense e ombre più spesse alla quotidianità di questa mattinata di giugno, rendendola per me indimenticabile.
“È gentile da parte tua dire così, ma è un po’ di tempo che lo sento, che si chiude intorno a me come la bocca di un fiorire gigantesco. Non è un’analogia peculiare? È così che sembra, però. Ha una certa inevitabilità vegetale. Pensa alle piante carnivore. Pensa ai kudzu capaci di soffocare una foresta. È una specie di progresso succoso, verde, rigoglioso. Che spinge verso…Bè, lo sai. Il silenzio verde. Non é buffo che anche adesso sia difficile dire la parola ‘morte’?”.
Giulia Casini
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