Maximum City – Bombay Lost and found – Suketu Mehta

Maximum-City

Questo è un libro che mi ha preso un po’ a corrente alternata, è partito benissimo, poi nella parte centrale si è ammosciato e ci siamo trascinati insieme in un ballo strascicato di tre mesi, e infine mi è risorto con passione per tutta l’ultima parte. E’ stato finalista al Pulitzer e ha vinto vari premi, su tutti il Kiriyama Prize, che viene attribuito a libri che promuovono una migliore conoscenza delle nazioni e dei popoli che vivono lungo il Pacific Rim e il Sud Est Asiatico. Suketu Mehta è un indiano trasferitosi in giovanissima età con la famiglia in America dove è cresciuto, si è laureato e si è sposato. Nel 1998, vent’anni dopo aver lasciato Bombay, ci ritorna per due anni e mezzo per scrivere questo libro, che è di base un dettagliato reportage sulla città più incasinata del mondo, un coacervo allucinante di umanità e mostruose disparità individuali e collettive.

Come servizio giornalistico, è un’opera grandiosa, dettagliata, lunghissima (quasi seicento pagine) e precisa: diviso in tre sezioni, il Potere (la politica, la criminalità e la polizia), il Piacere (i dance bars e le ballerine, le zone a luci rosse e Bollywood) e infine Passaggi (storie del suo passato a scuola, di transizione di migranti dagli slums ai quartieri medio bene, di un poeta che vive sui marciapiedi di Bombay e di una famiglia che decide di aderire al culto dei monaci Jain, che rifiutano qualsiasi forma di violenza (del tipo che nella stagione dei monsoni vivono reclusi per quattro mesi perchè se dovessero inavvertitamente mettere un piede in una pozza d’acqua potrebbero uccidere non solo minuscoli organismi acquatici ma anche l’unità dell’acqua) per aderire a una forma di vita ascetica e di meditazione abbandonando famiglia e averi.

Per ogni sezione, Mehta presenta i problemi quotidiani della gente che vive in quella parte di Bombay che sta descrivendo; tramite l’intricatissima rete indiana di contatti e favori concessi da parenti e amici, riesce a parlare con politici, sceneggiatori di Bollywood, esponenti della malavita e ballerine delle zone a luci rosse, frequentando le loro case, mangiando e spesso vivendo con loro per qualche tempo,  e ne descrive le storie, umanizzandoli, dando una prospettiva unica di quel mondo, senza filtri se non l’accorgimento di dare loro pseudonimi.

Indubbiamente a me occidentale che ha una vaghissima idea di come possa essere davvero la vita a Bombay, ha dato per molti versi uno spaccato di quella città unico e irrinunciabile.

Per esempio quando parla di certi piccoli baretti e chioschi dove andare a cercare il miglior cibo della città, della necessità di sciorinare bustarelle a destra e a manca per superare qualsiasi inconveniente, di una stella del cinema che alla finestra si fissa una ghirlanda di gelsomino tra i capelli, dei turisti occidentali con i loro drink nei bar di lusso. Quando descrive l’orrore dei bagni pubblici (ci sono file quotidiane, infinite, perenni per i cessi comunitari, e due minuti dopo che sei finalmente entrato nella latrina perchè è arrivato il tuo turno la gente comincia a battere sulla porta, battono per tutto il tempo che ci impieghi, cinquanta persone che bussano alla tua porta mentre sei seduto sul cesso) e dell’acqua corrente che trasporta particelle di escrementi negli slums ma anche nei quartieri medio bassi, la puzza di pesce messo a seccare all’aperto su palafitte, l’inevitabile incessante contatto con milioni di altri corpi sudaticci e umidi, l’aria inquinata e l’onnipresente frastuono, la notte che solleva milioni di zanzare dalle paludi malariche. Bombay è un mostruoso agglomerato urbano di più di diciotto milioni di persone; in certi quartieri, più di un milione di gente vive nella superficie di un miglio quadrato, lottando per ogni centimetro di spazio. Con così tante persone a contendendersi qualsiasi servizio, è inevitabile che la corruzione dilaghi in ogni settore dal pubblico al privato del cittadino, chi può pagare arriva prima ad ottenere qualcosa, e gli altri si arrangiano.

L’autore intervista un capo della polizia che orgogliosissimo gli spiega come statisticamente Bombay sia una città con relativa poca criminalità per le sue dimensioni (ovviamente escludendo i crimini legati alla mafia locale, che vengono trattati a parte nella statistica), e di come sia basso il tasso di casi irrisolti. Questo perchè la polizia ha il campo libero per picchiare e torturare i sospetti fino ad ottenere complete confessioni; ma non c’è altro modo, spiega il poliziotto convinto, sinceramente fiero del proprio lavoro. I gangster hanno un sistema giudiziario proprio che scorre parallelo a quello ufficiale, di cui ogni cittadino è a conoscenza, un sistema che prevede punizioni immediate ed esemplari e che per primi i giudici del locale tribunale riconoscono.

Di fronte agli uffici postali vivono gruppi di scrivani, che scrivono lettere per conto di tutti gli analfabeti arrivati in città che necessitano comunicare con casa, confezionano i pacchi per i forestieri, fungono da cassetta delle lettere per la gente che vive sui marciapiedi, compilano moduli e vaglia postali per chi sa un po’ scrivere ma è incapace di districarsi nella burocrazia cittadina. Scrivono lettere anche per conto delle prostitute, che mandano soldi e notizie a casa: Fate sposare mia sorella, vi manderò ancora soldi per la dote; vostra figlia se la cava bene con il lavoro in città; per favore mandate a scuola mio fratello.

A Bombay si fa sempre la fila: per votare, per avere una casa, per avere un lavoro, per prenotare un treno, per fare una telefonata, per andare al lavatoio pubblico. E quando finalmente arrivi in testa alla fila, ti viene sempre e comunque fatto notare che stai facendo perdere tempo a centinaia, migliaia, milioni di persone alle tue spalle, forza, forza, devi sbrigarti.

Ci sono pagine di incredibile dolcezza che raccontano la vita nelle baraccopoli. Noi occidentali tendiamo a considerare gli slums come escrescenze sui corpi dei quartieri bene, milioni di poveracci che vivono in perpetua miseria. Ma queste persone creano da ambienti orribilmente inospitali delle comunità, che vivono e si supportano tutte insieme: le donne vanno a riempire i secchi alla pompa dell’acqua e chiacchierano, i bambini possono entrare in qualsiasi baracca e se hanno fame gli viene sempre dato qualcosa, in ogni stanza -dove pure vivono già cinque o sei persone- c’è un viavai continuo, chi è arrivato prima si sposta sulla branda per accomodare i nuovi arrivati, tutti vengono sempre invitati a restare per pranzo ma tutti sanno di dover rifiutare; e se diciamo ai vicini che dobbiamo andare all’ospedale tutti escono a esprimere solidarietà e a rassicurarti che pregheranno per te.

Ci sono famiglie che lavorano tutta la vita vivendo in una baracca con il pavimento sterrato e per tetto una lamiera o un telo cerato, come arredo uno sgabello e due sedie, la Tv e qualche scaffale, dove nessuno ha mai avuto un letto nè ha mai dormito da solo nella propria vita spesa in quell’unica stanza dove si mangia, si riposa e si vive insieme a tutto il resto della famiglia. Non esistono individualità, chiunque dei figli lavori dà tutto lo stipendo in casa, e a volte dopo anni di risparmi e sacrifici si riesce a comprare un bilocale in un condominio delle case popolari, uscendo dagli slums. E si esce tutti insieme ovviamente, l’intera famiglia. E’ il motivo per cui si viene dalla vita relativamente facile del villaggio a Bombay, per cui si accetta di vivere con i propri figli in condizioni penose magari per tutta la vita: perchè un giorno, come a volte accade, il figlio maggiore possa comprare due stanze in un condominio, e anni più tardi il più giovane possa spingersi ad andare a vivere in America. Il disagio è un investimento. Si sacrifica la comodità individuale per il progresso della famiglia, che avanza tutta insieme, nessuno viene lasciato indietro, non i genitori anziani, non le sorelle nubili, a volte neanche i cugini che possano necessitare aiuto. Una volta arrivati a un determinato grado di ragionevole successo, si pensa a chi nella famiglia è da solo e deve pensare alla madre e a tre sorelle, gli si cerca un lavoro. Spesso non si misura il successo contando i completi di Armani che si possono comprare o la nuova Mercedes, ma grazie all’opportunità di aiutare chi è rimasto indietro.

Tutta la parte che ho descritto è davvero interessante; poi come dicevo, ho trovato la sezione centrale molto lunga e prolissa, troppi aneddoti, troppi personaggi e nessuno degno di nota, troppe storie simili. Sicuramente il cuore dello scrittore è nell’argomento trattato e nell’amore per la propria città natìa, ma l’esecuzione va a momenti.

Concludendo, un libro corposo, non sempre ben scritto, troppo lungo. Comunque un reportage fantastico, Bombay ne esce protagonista assoluta e vivida, sporca, zozza, violenta, tanto difficile che solo un nativo può arrivare ad amare davvero, così viva, pulsante di vita e possibilità, e così triste, piena di disperazione, ignoranza, odio e razzismo.

Se siete interessati alla cultura indiana è sicuramente un libro utile e interessante, pur se a tratti noioso. Io l’ho letto in inglese ma è pubblicato anche in italiano.

Lorenza Inquisition

 

Carmen Pellegrino – Cade la Terra #CarmenPellegrino

A nessuno dovrebbe essere inflitto di vedere il dispetto negli occhi di chi lo ha messo al mondo.pellegrino

Come fra le quinte di un teatro in disfacimento ecco aggirarsi un anarchico, un venditore di vasi da notte, una donna che non vuole sposarsi, un banditore cieco, una figlia che immagina favole, un padre abile nel distruggerle.
Ma dove sono i vivi e dove i morti? Estella non se lo dice, perché vorrebbe solo cambiare i destini, invertire il corso di esistenze desolate, per ridare loro un po’ di calore, come una vita nuova, ora che l’altra che ha infuriato per anni si è conclusa.

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Carmen Pellegrino è un’abbandonologa, neologismo creato appositamente per lei dalla Treccani, a seguito dell’invenzione di un bambino, un po’ come per petaloso insomma: “Chi perlustra il territorio alla ricerca di borghi abbandonati, edifici pubblici e privati in rovina, strutture e attività dismesse (luna park, orti, giardini, stazioni, ecc.), di cui documentare l’esistenza e studiare la storia”.

Quasi sempre chi se n’è andato da questi spazi ha lasciato la porta socchiusa, la finestra accostata, una piantina di fiori sul davanzale, delle collane di peperoni appese al soffitto, la legna sul caminetto: come se dovesse rincasare da un momento all’altro. Ma nessuno è mai tornato, e nessun altro ha più fatto dono di una visita pur fugace. Come se ne andasse di mezzo qualche maledizione inesprimibile.

Alla Pellegrino piace esplorare luoghi abbandonati per entrare in sintonia con essi e con la loro vita precedente. Dalla sua passione è nato il romanzo in cui la protagonista, Estella, è una ragazza scappata da un monastero e dalla vita monacale che trova lavoro come istitutrice presso una famiglia bene del paese campano di invenzione di Alento, costruito su una collina che piano piano sta cedendo e quindi destinato all’abbandono.
Alento e i suoi abitanti non sono solo un contorno ma sono i co-protagonisti della storia e il risultato pare un riuscito e sentito omaggio a tutti quei borghi in Italia che sono stati abbandonati, vuoi per motivi geologici o per motivi economici.

Massimo Arena

DESCRIZIONE

Un romanzo importante perché tutti ci portiamo dentro un piccolo paese abbandonato.

Alento è un borgo abbandonato che sembra rincorrere l’oblio, e che non vede l’ora di scomparire.
Il paesaggio d’intorno frana ma, soprattutto, franano le anime dei fantasmi corporali che Estella, la protagonista di questo intenso e struggente romanzo, cerca di tenere in vita con disperato accudimento, realizzando la più difficile delle utopie: far coincidere la follia con la morale.
Voci, dialoghi, storie di un mondo chiuso dove la ricchezza e la miseria sono impastate con la stessa terra nera. Capricci, ferocie, crudeltà, memorie e colpe di un paese di “nati morti” che si tormenta nella sua più greve contraddizione: voler essere strappato alla terra pur essendone il frutto.
Cade la terra è un romanzo che acceca con la sua limpida luce gli occhi assonnati dei morti: sembra la luce del tribunale della storia, ma è soltanto il pietoso tentativo di curare le ferite di un mondo di “vinti”, anime solitarie a cui non si riesce a dire addio perché la letteratura, per Carmen Pellegrino, coincide con la loro stessa lingua nutrita di “cibi grossolani”. Seppellirli per sempre significherebbe rimanere muti.
Ma c’è orgoglio e dignità in queste voci, soprattutto femminili. Tornano in mente le migliori pagine di Mario La Cava, Corrado Alvaro e Silvio D’Arzo: prose appenniniche petrose ed evocative, come di pianto riscacciato in gola, la presa d’atto dell’impossibilità d’ogni epica.
Cade la terra è tassello romanzesco importante della grande letteratura meridionale novecentesca. Che venga pubblicato ora, in altro secolo, è solo la dimostrazione che gli orologi non sempre indicano l’ora esatta.
(Andrea Di Consoli)

Con Carmen Pellegrino “l’abbandonologia” diviene scienza poetica. Ora questo modo particolare di guardare le rovine, di cui molto si è parlato sui giornali e su internet, ha il suo romanzo: questo.

Per approfondimenti sull’autrice e il suo romanzo visita il sito www.cadelaterra.it.