Avventure della ragazza cattiva – Mario Vargas Llosa @VargasLlosa80

«Io, in un impeto di confidenza, gli avevo appena raccontato, senza dettagli e senza nomi, che da molti anni ero innamorato di una donna che appariva e scompariva nella mia vita come un fuoco fatuo, incendiandola di felicità per brevi periodi, e, dopo, lasciandola secca, sterile, vaccinata nei confronti di qualsiasi altro entusiasmo o amore».

marioprinLeggere il Mondo: Perù

Per il Perù, vado sul sicuro con Vargas Llosa, Premio Nobel per la Letteratura nel 2010, tra i maggiori scrittori di lingua spagnola del Novecento. Questo è un romanzo relativamente recente, del 2006. E’ la storia di un amore imperituro e mai corrisposto, che attraversa trent’anni di storia di due persone. Bisogna un po’ dire che a seconda di come siete caratterialmente, il tema di un cavalier servente che ama come un fesso per trent’anni senza esser ricambiato vi potrà sembrare romanticissima, o innervosente ai massimi livelli per gli altissimi momenti di zerbinaggio del protagonista. Ma è Vargas Llosa, quindi è abbastanza inevitabile  per tutti, penso, sedersi in poltrona e godersi lo spettacolo.

Ricardo incontra da adolescente la sua musa, la sua niña mala, quando entrambi sono ragazzini negli anni ’50 in un Perù borghese e democratico, prima del tentativo di rivoluzione e del colpo di Stato. Sarà un’estate di baci rubati al cinema, di balli cha cha cha e gelati nel parco, ma alla fine della stagione calda, quando tornano i doveri, l’impegno, lo studio, Ricardo perderà la sua ragazzina. Non la dimenticherà però, e anni dopo, laureato e impiegato a Parigi, la ritroverà: sempre bellissima ai suoi occhi, seducente e impossibile da amare. Perchè dopo qualche tempo, ancora lei se ne andrà, e lo farà sempre, per tutta la loro vita. La ritroverà a distanza di pochi, o molti anni, ma la ritroverà sempre, sotto nomi e travestimenti diversi, come guerrigliera Arlette, come moglie di un diplomatico francese prima e di un allevatore di cavalli inglese poi, e infine come schiava del sesso giapponese. Gli si concede per qualche tempo, forse felice di farsi amare per un po’ da un cavalier servente che la ama per trent’anni, mai ricambiato, e poi riparte, in cerca di avventure, di un marito più ricco, di una posizione più privilegiata in società. Ricardo si lascia umiliare da lei, che lo abbandona ogni volta per mettersi con uomini più ricchi, che ha orrore della vita semplice e borghese che lui le offre, e cerca il riscatto da un passato di miseria. Ma egli sopporta, possiamo pure dire come un babbeo (e diciamolo!) perchè la ama, l’ha amata tutta la vita, e non ha mai amato nessuno come ama lei. E se è vero che gli ha dato tanto sofferenza, l’unica vera felicità che lui abbia mai conosciuto è sempre stata quando era insieme alla sua niña mala.

E’ un libro piacevole, che scorre felicemente tra diversi, umanissimi personaggi, alcuni un po’ stravaganti ma mai sopra le righe, e descrizioni davvero affascinanti di diversi luoghi e culture: la Parigi beatnik sessantottina e la Swinging London, gli hippies e i lord nella campagna inglese, il Perù con il suo lento degrado, il sottobosco delle case di appuntamento in Giappone. E sempre, come filo conduttore, la vita tranquilla e colta di Ricardo, uno studioso che si rifugia nei libri, che ama le lingue e le studia con passione, che traduce per tutta la sua esistenza. Ci sono molti libri e autori in questo romanzo, tanto teatro e anche tanto cinema, soprattutto tanta passione per la parola scritta.

Ricardo è un personaggio mite, un uomo di studi, un piccolo borghese convenzionale, che per lavoro sparisce nelle parole degli altri. E’ quindi credibile la sua fascinazione appassionata per una donna un po’ selvaggia e fuori dagli schemi. Per contro, quello che ho trovato un po’ debole è proprio il personaggio di lei, che alla fine emerge più come un agglomerato di aggettivi (calcolatrice, materialista, superficiale, egoista) che come una vera donna che fa bollire il sangue, appassionata, femme fatale. L’unico momento in cui appare più umana è quasi a tre quarti del libro, quando la propria ossessione amorosa per un masochista la trascinerà in un abisso di dolore, e infine, malattia.

Leggo in rete che sicuramente non è il miglior lavoro di Vargas Llosa, però mi è piaciuto molto, la scrittura è divina. Ed è il classico libro che ti fa dire Voglio leggere altro di quest’uomo! e lo leggerollo, perdinci!

Lorenza Inquisition

Leggere il Mondo: Tajikistan #biblioviaggio #Tajikistan

tj6

Il Tajikistan è un ex stato sovietico situato nel cuore delle montagne dell’Asia Centrale, tra gole anguste e una distesa infinita di picchi mozzafiato separati da laghi turchesi profondissimi. Da qui Samarcanda non è così lontana, questa era la Via della Seta. Tutta la letteratura del Paese è stata, fino all’avvento della dominazione russa, in lingua persiana. Il regime sovietico introdusse l’alfabeto cirillico nella lingua tagica, e si sono distanziate le generazioni attuali dal patrimonio della letteratura persiana classica. Anche a livello estetico e tematico, la letteratura tagica di epoca sovietica si è ampiamente sintonizzata con i dettami del “realismo socialista”. Con l’indipendenza dall’URSS (1991), si sono messe in moto  dinamiche di distanziamento dalla cultura russa e contemporaneo rinsaldamento del legame con la tradizione classica persiana e islamica. La lingua locale, il tagiko, è una variante del persiano diffusa in Tagikistan, una lingua indoeuropea del gruppo iranico. Il più famoso scrittore vivente è Taimur Zilfikarov, al quale viene riconosciuta la capacità di riproporre lo stile degli antichi scrittori persiani, toccando sentimenti nazionalistici.

Non sono riuscita a trovare traduzioni inglesi (italiane poi, ah ah ah le matte risate) in ebook di scrittori tagiki contemporanei, quindi ho deciso di leggere uno scrittore persiano classico, Gialal al-Din Rumi  dato che l’origine delle due parlate è la stessa. Inoltre per completezza ho voluto leggere qualcosa di conteporaneo ambientato in Tajikistan, e l’unico libro papabile (e pensate allora gli altri cos’erano!) che ho trovato è Sixteen seasons, di David James, un giovane missionario americano che ha vissuto lì con sua moglie e due figli piccoli per 4 anni a fine anni ’90, dopo l’indipendenza dall’URSS e a cavallo degli attacchi alle Torri Gemelle. Speravo in un racconto come quello di Tuvalu, dove l’autore pur sognandosi di notte le patatine fritte e l’arrosto di vitello, ha lavorato in mezzo alla gente per due anni facendosi un mazzo tanto e anche parecchie risate. Il signor James a parte la discutibile abitudine, in quanto religioso, di salmodiare versi sacri e citazioni bibliche ogni dieci pagine cercando di infondere in noi lettori e nel suo pubblico tajiko la divina grazia cristiana, scrive male, e a volte pensa peggio. Si reca in pellegrinaggio con alcuni vicini musulmani in un luogo sacro islamico, e non trova di meglio da fare che ridicolizzare con noi le scritte sui depliants per i visitatori, e in genere ridersela per alcuni comportamenti dei locali. Sua moglie poi è pure peggio, interrogata da alcune donne locali sulla ricetta di alcuni biscotti, decide di dare due o tre lezioni di cucina, e siccome si accorge che le signore non capiscono il significato di “un quarto” o di altre unità di misura, inaugura la serie di corsi di cucina spiegando per ore le frazioni alle contadine tajike, lasciandole perplesse e scoraggiate. Sarà forse lodevole il suo intento, ma penso che sarebbe stato molto più semplice e diretto semplificare le misure: un bicchiere, due cucchiai, e così via.

Non è stato del tutto orrendo, per la verità l’autore a volte è riuscito a veicolare qualcosa del mondo in cui ha vissuto e che volevo conoscere. Per esempio quando spiega come l’ospitalità sia un valore assoluto, una sincera bellezza di una cultura che non è molto orientata sulle liste di cose da fare, ma lo è moltissimo sulle relazioni umane. O di come racconta come sia difficile la vita per molte famiglie povere per cui almeno due uomini del clan si trasferiscono in Russia per lavorare per mandare a casa i soldi, a volte anche per due o tre anni, una pratica così diffusa che c’è una filastrocca che i bambini canticchiano dove si parla dell’aereo che porterà a casa il babbo, prima o poi.

E poi ho capito bene il curioso convincimento tajiko che morta certa aspetta chi sia così sprovveduto da lasciare che una corrente di aria diretta tocchi la pelle nuda, e questo spiega perchè nelle foto siano sempre tutti belli coperti anche in estate da capo a collo, sudati ma felici di aver scampato un tristo destino. E anche in Tajikistan ci siamo andati! e via!

Lorenza Inquisition

tj7

Qui c’è un articolo interessante sul Tajikistan uscito su Repubblica viaggi: http://www.repubblica.it/viaggi/2013/05/08/news/tajikistan_contatto_con_il_cielo-117050029/