Chi la scrisse, Non si può morire dentro? Tenco? È uno dei pochi ricordi di mia madre che ho assemblato nel tempo – ricordi di prima e seconda e terza mano, ricordi mezzi di lei, parole dette su lei o ascritte a lei: lei che stende le lenzuola sui fili stesi nel terrazzo della casa vecchia e canta; mio padre che sente squillare il telefono, la chiama. Io sono da qualche parte a giocare, forse, o forse a guardare incantato il moto dei riflessi che l’acqua d’una bacinella componeva sul soffitto, una barchetta di carta rolla.
Non si può morire dentro. Chiunque abbia scritto questo verso sapeva di mentire e lo faceva. E allora scrivo, e Dio maledica le mie parole, se serve, ma me le dia.
La seconda prova lunga di Porpora è un romanzo meravigliosamente sbilanciato. Diviso in tre parti, la prima ben più lunga che rimanda tematicamente e stilisticamente al precedente La conservazione metodica del dolore. Si sviluppa come un travaglio emotivo, sentimentale ed esistenziale narrato in prima persona da Severo, l’artista-corpo, l’uomo che sembra scavarsi dentro, rovistare alla ricerca del senso ultimo del creare, del dipingere. Severo ha col proprio corpo, col padre e con la propria arte un rapporto conflittuale, problematico, tanto da farsi malattia come un approdo (e una modalità) inevitabile. Poi c’è Anita, nel cui amore Severo sperimenta una sponda vitale, un’ipotesi di completezza che sembra non essere in grado di governare, di trattenere a sé. Il terzo lato del triangolo è Arsène, l’artista famoso e bohémienne che diventa maestro di Severo. Tra i due si sviluppa un rapporto intenso e controverso, a tratti aspro e bizzarro. L’accartocciarsi progressivo di Severo nella malattia che sembra consumarlo diventa quindi un percorso di ri-formazione, di approdo faticoso alle ragioni (gli scacchi come simbolo di questo ragionare) che possono renderlo vivo oltre che creativo.
Le altre due parti, più brevi, sconcertano per il passaggio alla terza persona (alla fine si capirà il perché) e per il cambiamento di stile, di temperatura. Nella seconda – bellussima – seguiamo Arsène adolescente, la sua formazione che fa luce su un tragico”peccato originale” e che quindi diventa a posteriori l’anima in filigrana di tutto il romanzo. La terza parte recupera il presente della storia (il 2005) e tira le fila seguendo un Arsène sempre più provato, consumato e svuotato dal dissidio interiore, lui l’Artista che si sente condannato a vampirizzare il creato, come un dio triste perché finalmente consapevole.
Lo sbilanciamento di cui dicevo è proprio questa strana incongruenza tra le parti, una discontinuità profonda che però si compenetra, chiama le vicende a confrontarsi e incastrarsi, a significare. A significare anche, in un finale che ti inchioda alle tue responsabilità di lettore, il ruolo vitale della scrittura – in barba alla “crisi del romanzo” – e quindi dello scrittore, insostituibile strumento (modalità, metodo, dimensione) per scavare e vagliare nel cuore ignoto dell’animo umano.
Stefano Solventi
SINOSSI
All’inizio ci sono due bambini, in Provenza, che corrono, metà per gioco e metà no: Bastien, il fratello maggiore, e Arsène, il minore. Bastien da questa corsa rimarrà segnato per la vita, e Arsène non riuscirà mai a perdonarselo. Molti anni dopo, a Viadana, un paesino in provincia di Mantova, un giovane pittore, Severo, chiede a un affermatissimo pittore francese, Arsène, di accettarlo come suo allievo. Perché Arsène ora vive lì, tra argini e nebbie? Che cos’ha “visto” in Severo, al punto di decidere di prendere su di sé, letteralmente, il suo male? Sono due misteri che solo una morte svelerà parzialmente. “Nudi come siamo stati” è tre romanzi in uno: la storia di un giovane sordo a se stesso che impara ad ascoltarsi; la storia di un bambino che perde la felicità e la scambia con uno strano cinismo; la storia di un uomo per il quale tutto è compiuto, e morire è come centrare il bersaglio di un’esistenza.