“Cominciamo col dire che sono nato melanconico così come uno nasce epilettico”.
Un monumentale “memoir”.
Vitaliano Trevisan scrive un precisissimo e documentato romanzo della propria storia lavorativa, fin dal primo momento, da quando aveva quindici anni e il padre lo portò in una fabbrica, per fargli capire l’origine dei soldi, quelli che gli occorrevano per comprarsi una bicicletta tutta sua, ed evitare le prese in giro degli amici che lo vedevano arrivare in sella a quella di sua sorella. Il suo primo lavoro, e fin da lì si capisce il motivo principale del lavoro, e cioè il bisogno meramente materiale. Nessun volo pindarico, o comunque non è lo svolazzo ideologico e romantico, il motivo principale, il lato principale da cui viene analizzato il Lavoro.
Il lavoro, che già nel finire degli anni ’70, epoca in cui Trevisan inizia il suo percorso, già appariva come spogliato dal sogno di “fare quello a cui ambisco”, ma si rivela come costrizione, forzatura, non fai quello che ti piacerebbe fare, nella stragrande maggioranza dei casi, ma fai quello che puoi, quello che ti capita, e lo fai a condizioni bassissime, sotto ogni aspetto. Lavori solo perché sei costretto, lo DEVI fare.
“Avrei sempre detto di sì, non perché abbia mai avuto davvero voglia di lavorare, ma semplicemente perché ho sempre avuto necessità di lavorare per nessun’altra ragione che per guadagnarmi da vivere, punto“.
E ha detto di sì davvero a tutto. Il diploma da geometra, poi operaio, muratore, con le parentesi da spacciatore, consumatore e ladro, disegnatore tecnico, venditore di cucine, magazziniere, lattoniere, gelataio, portiere di notte.
Una storia di personale trasformazione e della trasformazione di un Paese, forse inversamente proporzionali, perché l’uomo è arrivato, forse, a coronare la sua aspirazione iniziale, mentre il Paese è precipitato.
E’ un romanzo in cui sono contenute precise denunce della condizione lavorativa, molto prima del Jobs Act, di cui è stato prologo perfetto, direi. Qui siamo agli albori, con Dc e Psi a fare gli schifosi protagonisti politici, parole sue (e anche mie, concordo). Qui si denunciano raccomandati, fannulloni pubblici, doppi lavori, e intrallazzi vari, commistioni tra pubblico e privato, perfettamente complementari, e si denuncia in massima parte il lavoro nero, i contratti non rispettati, nemmeno letti, la sicurezza sul lavoro sacrificata in nome del profitto.
“Ho già quasi 29 anni, lavoro a tempo più che pieno da dieci, e avrò al massimo un anno di contributi”.
Lavoro che è vera maledizione, fin dalla nascita.
“Una maledizione che, almeno a leggere la Bibbia, ci meritiamo tutti per il solo fatto di essere venuti al mondo, oltretutto in un Paese che su detta biblica maledizione pretende di fondarsi, e, di nuovo oltretutto, in una regione, il Veneto, e in una provincia, Vicenza, che fa del lavoro una religione“.
Eppure lavorare non solo è un dovere, ma anche un bisogno. Perché lavorare consente di evitare guai peggiori. Di salvare famiglie e matrimoni. Di salvare se stessi dall’inattività, che porta solo rogne, e grosse.
Ma è anche un romanzo dove contano e vengono perfettamente descritti gli esseri umani, le persone, nella forma dei compagni di lavoro, e anche datori di lavoro, che rappresentano forse la parte più sentita, anche commovente, della narrazione. Un romanzo dove si parla anche di madri, di padri, di mogli, di famiglia, e dei contrasti enormi in essa, di aspettative mal riposte e mal ripagate, oppure, meglio, ripagate in altri modi, non voluti e non accettati.
“Già il fatto di dedicare molta parte del mio tempo alla lettura era visto come una specie di mania, una sorta di tollerabile eccentricità, che rimaneva comunque una sostanziale perdita di tempo“.
Da subito Trevisan decide che vuol fare lo scrittore, da subito anzi decide che egli è, uno scrittore. E quindi tutte le sue esperienze le vive spesso in maniera dolorosa, se non tragica, ma dicendo a se stesso che sarà tutto bagaglio utile per quando finalmente si deciderà a muovere quella penna.
“In fondo, pensavo, anche se non scrivevo una riga, né tenevo un diario o altro, ero pur sempre uno scrittore, e, in questo senso, niente di ciò che avevo fin lì vissuto era stato buttato via, semmai il contrario“.
E’ un romanzo dove si descrive un territorio e un ambiente ben preciso.
In cui molti potranno riconoscersi. Ma anche per noi, che non abbiamo vissuto tutto questo, è qualcosa di molto educativo. E’ una finestra temporale e sociale illuminante.
Il ritmo con cui vengono descritte tutte queste cose è sostenuto, incalzante.
Più di 650 pagine che, nonostante diverse lunghissime digressioni quasi senza interpunzione, scorrono via velocissime, e alla fine ti dispiace andare così veloce nella lettura.
Un romanzo che descrive un uomo, ma anche l’Italia, un’epoca intera, generazioni intere che passano dalla speranza alla frustrazione, compreso tutto il percorso dall’alcol alla droga, alla rieducazione (quando va bene) perché lavorare è dura, perché lavorare non è sufficiente, perché la sensazione che sia tutto inutile è troppo potente per resistere, e il sabato e la domenica devi estraniarti dal mondo, con ogni mezzo, inventarti la vita.
E la scrittura stessa è, per Trevisan, mezzo attraverso il quale attraversare questo dolorosissimo fiume di depressione, follia, disperazione “disperazione, è per questo che scrivo”; confidenze forti, anche commoventi, per lucidità e sincerità.
Un romanzo duro, sincero. Scritto da chi si mette in discussione sempre, e si trafigge di critica e di autostima alle ortiche.
“Mai riuscito a pensare, mai, neanche una volta, che se tornassi indietro rifarei tutto. Se tornassi indietro, questo libro non esisterebbe“.
E meno male che indietro non si può tornare, almeno in questo caso. Speriamo che libri così contribuiscano a ribaltare questo Paese dalle fondamenta, a ridare diritti e coscienza a chi li ha persi o dimenticati, o a chi se li è visti strappare via con la forza. O almeno a riflettere, prender coscienza, fare informazione vera, perchè qui di lavoro non ne parla più nessuno, mi pare.
Un gran libro.
Musica: Lavorare stanca, Il Teatro degli Orrori
Carlo Mars