Cassandra al matrimonio – Dorothy Baker #DorothyBaker #Fazi

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Cassandra al matrimonio (Cassandra at the the Wedding), Fazi editore, è un romanzo pubblicato in America per la prima volta nel 1962, quando la sua autrice, Dorothy Baker, aveva 55 anni. La trama è molto semplice: quarantott’ore nella vita di Cassandra, che raggiunge la tenuta di famiglia perchè la sorella gemella Judith è in visita a sorpresa con la sbalorditiva notizia che è fidanzata, e che il matrimonio avrà luogo proprio quel week end. Cassandra è intelligente, spiritosa, elegante, gay (anche se il riferimento è un po’ ambiguo, probabilmente perchè negli anni in cui usciva il libro non era possibile dichiararlo apertamente). Tutto il romanzo è strutturato in suo lungo monologo, interrotto solo per un capitolo da un soliloquio assegnato a Judith; e nel momento in cui il viaggio in macchina da Berkeley al ranch di famiglia è compiuto, siamo già abbastanza addentro ai dolorosi sentimenti di Cassandra verso la sorella da pensare a Platone e al concetto dell’amore come un viaggio alla perenne ricerca della propria metà, trovando la quale si torna all’antica perfezione voluta dagli dei.

Cassandra e Judith appartengono a una famiglia ricca, colta, genitori affascinanti, letterati e bohemien, il padre professore di filosofia all’Università, la madre, al momento della narrazione defunta da alcuni anni, acculturata scrittrice. Le sorelle vivono tutta la loro vita nella reclusa, confortante enclave del proprio clan: i genitori, la nonna, e il gatto Tacky. Sono un’elite che si distingue dal conformismo e dalla ignorante borghesia dei vicini, le ragazze sono educate fin da piccole a discutere di letteratura e filosofia con gli adulti, dopo la scuola non si fermano a parlare coi loro coetanei del liceo che non hanno mai sentito nominare Bartòk, ma corrono a casa ad ascoltarlo insieme alla nonna, per poi ridere tutta la sera con il padre che cita Aristotele. Crescono insieme contro tutti in un mondo illuminato, progressista e intelligente, ma recluso e fine a sè stesso: e quando le due ragazze devono partire per l’Università e lasciare la loro torre d’avorio, non sono pronte ad affrontare il mondo, che peraltro, non è nemmeno interessato alla loro esistenza, e lo dimostra brutalmente. Dopo qualche mese di abietta solitudine, Judith cede, e si butta, decidendo di provare a vivere in mezzo agli altri: ha un grande talento musicale, si iscrive alla Julliard, e va a vivere a New York, lasciando la gemella, Cassandra, a languire in miserabile isolamento. Cassandra non vuole cedere, non vuole conformarsi, più che altro non sa come farlo: sa solo che gli unici momenti veramente felici sono quelli che vive in profonda sintonia con la sorella. Emozionalmente, è ferma a quell’età dell’oro che molte giovani vivono con la migliore amica, o sorella, negli anni prepuberali, in cui l’altro sesso (o comunque l’attrazione sessuale) non sono ancora (del tutto) un fatto della vita, e tutte le loro emozioni amorose e intellettive sono concentrate in quell’esclusiva relazione con un’altra ragazza, loro sole contro il mondo, in un rapporto così intimo che ci si chiede come possa mai finire. Poi, bastano a volte pochi mesi, si cresce, si instaura una relazione sessuale e amorosa con un’altra persona; l’amor platonico e la sorellanza spesso rimangono, sublimati in un sentimento di profonda e duratura amicizia. Cassandra non si è evoluta a livello emotivo, principalmente per via della particolare condizione di essere gemella monozigote di Judith: è del tutto incapace di accettare che la sorella abbia deciso di dividere ciò che è nato per essere unito fino alla morte.

La notizia del matrimonio, ovviamente, la trova in piena negazione: in lei, che in questi mesi di separazione da Judith si è buttata in un vortice autodistruttivo di anoressia, alcolismo e dipendenza da farmaci prescritti dalla propria terapista, vive una sola certezza, che loro due gemelle siano destinate a vivere insieme le loro vite, in perfetta simbiosi, come è sempre stato.

C’è anche un altro aspetto che frena la sua maturazione: il suo talento artistico, rispetto a Judith, è la scrittura. Ma sopra di lei incombe l’ombra schiacciante della memoria della madre, scrittrice coltissima; e, come la stessa Cassandra ci chiede, Ma chi ha voglia di gareggiare in bravura con un genitore morto?

E’ un romanzo scritto divinamente, molto interessante, i personaggi caratterizzati in modo mirabile, dialoghi vividi, da pièce teatrale. E’ a volte prolisso, e c’è qualche momento, alla lunga, nelle ripetute, morbose lamentele della protagonista, che stanca, ma questo non la rende meno vera. E’ annoiante, pungente, instabile, e molto affascinante, un personaggio di cinquant’anni fa ancora incredibilmente vivo e diretto. La sua storia è dolorosa e molto umana, e anche se non se ne rende ancora conto, Cassandra è l’unica delle due sorelle ad aver sviluppato quel genere di indipendenza di pensiero e anticonformismo che i genitori speravano per le figlie, valutandolo come massimo aspetto di crescita. Judith è sì più equilibrata e matura, ma la sua individualità è pronta a sacrificarla sempre, prima alla sorella, poi al marito, cioè alla società, non ribellandosi mai veramente, come Cassandra, al perbenismo ipocrita del resto del mondo.

E’ una storia particolare e decisamente fuori dagli schemi, che non fornisce soluzioni: Cassandra si arrende alla decisione della sorella di sposarsi, ma non sapremo mai se resisterà alla tentazione più facile di farla finita oppure riuscirà a trovare il modo di essere solo Cassandra, e non la metà di se stessa.

Consigliato.

Lorenza Inquisition

 

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Le cure domestiche – Marilynne Robinson #MarilynneRobinson #Einaudi

“Mi venne in mente che la maggior parte delle persone nelle stazioni degli autobus sarebbero state degne di nota se non ce ne fossero state tante e tutte altrettanto degne di nota.”

Traduttore: D. Vezzoli
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli

Dall’autrice della trilogia formata da Gilead, Casa e Lila, il vincitore del PEN/Hemingway Award 1982, inserito dal «Guardian Unlimited» fra i cento piú grandi romanzi di tutti i tempi.

Primo romanzo di Marilynne Robinson, di molto precedente alla trilogia di Gilead. Pubblicato nel 1980, è uscito in Italia per la prima volta nel 1988, con il titolo – decisamente sviante – di Padrona di casa. Poi riedito da Einaudi.
Romanzo bellissimo.

Ruth e Lucille non hanno mai visto Fingerbone, la cittadina del Midwest che ha dato i natali alla loro mamma Helen, né le acque fonde e cupe del lago intorno a cui sorge. Ma quel lago, che in passato è stato teatro di un tragico e spettacolare disastro ferroviario, divenendo luogo di eterno riposo per molti abitanti della zona, pretende un grande tributo dalle loro giovani vite. Lo esige il giorno in cui Helen decide di riconsegnare le bambine alle loro origini e, dopo aver affrontato il lungo viaggio da Seattle, le deposita sul portico della casa avita con un pacco di biscotti da sgranocchiare per ingannare l’attesa; quindi, senza una parola di commiato né una riga di spiegazioni, risale in macchina e va a gettarsi nel lago.

“Io non riesco ad assaggiare una tazza d’acqua senza ricordare che l’occhio del lago è quello di mio nonno e che le acque pesanti, cieche e opprimenti del lago composero gli arti di mia madre, appesantirono i suoi indumenti, bloccarono il suo respiro e bloccarono la sua vista.”

Una delle due bambine, Ruth, è la voce narrante della loro storia. Racconta per sottrazione, ogni persona qui è destinata in qualche modo ascomparire, a non esserci, mentre la casa rimane l’unico punto di riferimento e di congiunzione di vite. La casa e l’alto terreno su cui è stata edificata rappresentano la continuità, l’appartenenza; sono la vita, l’attaccamento alla terra, la fedeltà ad una scelta.

Sulle rive del lago le bambine cresceranno in un isolamento quasi totale dai loro coetanei, in un rapporto felicemente simbiotico, pattinando sulle acque gelate, scorazzando per le rive quasi fino a perdersi nei gelidi e rarefatti paesaggi lacustri, lontane dai rumori della città, immerse nel silenzio della natura. Ma il lago è anche una presenza minacciosa, quando il gelo finisce e le piogge lo fanno tracimare nel paese, fino a invadere con le sue acque, così pregne di storie, le case di Fingerbone. Allora bisognerà ritrarsi a vivere nella mansarda lasciando che l’acqua impregni tutto e poi, piano piano riscenda. La casa, in cui le due sorelle vivono diventa il personaggio principale, una casa immersa e sommersa dalla natura, il fulcro della vita di una famiglia esclusa dalla civiltà. Ma c’è altro, le conseguenze dell’abbandono, della morte, dell’assenza.

“La memoria è il senso della perdita, e la perdita ci trascina appresso a sé.”

La cura delle due orfane negli anni passerà alle mani di una successione di parenti femminili, fino alle cure domestiche della zia Sylvie, sorella minore della loro madre, personaggio misterioso, affascinante e inquietante nello stesso tempo, disturbato, reduce da una vita di vagabondaggio, con un lungo capotto e scarpe e vestito leggero, racconterà alle due ragazzine storie infinite che hanno a che fare sempre con treni e stazioni.
Di fronte al modello evanescente e sradicato della zia, le due sorelle, fino a quel momento una sola anima scagliata nel mondo, devono interrogarsi sul senso dell’appartenenza e del ritorno, venire a patti con la solitudine, e scegliere la loro idea – reale, metaforica e universale – di casa. Separazione dolorosa e inevitabile dunque: Lucille sceglierà di scrollarsi di dosso il peso dei morti, della loro assenza, del ricordo, per cercare una forma di integrazione sociale, mentre Ruth, voce narrante del libro, si lascerà trascinare nel mondo di Sylvie, segnato dalla precarietà e da un progressivo sradicamento.

Romanzo di formazione, romanzo al femminile, romanzo sulla solitudine e il radicamento o il non radicamento. Romanzo che quando lo finisci vorresti ricominciarlo da capo perché ti pare di aver perso qualcosa tanto è ricco di riflessioni, di pensieri e di stati d’animo. Scrittura magistrale, poetica, affascinante, potente.

“Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata. Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di vederli.”

Pia Drovandi

“La fama italiana di Marilynne Robinson è legata in larga parte alla straordinaria trilogia composta da Gilead, Casa e Lila: tre romanzi strettamente interconnessi e pubblicati in un decennio esatto (dal 2004 al 2014), in un’esplosione creativa tdavvero sorprendente.

Se Gilead, premiato con il National Book Critics Circle Award e con il Pulitzer tra il 2004 e il 2005, ha segnato la definitiva affermazione di un’autrice che godeva già di un ampio e consolidato sostegno critico, e i due, successivi capitoli della trilogia hanno figurato entrambi tra i finalisti del National Book Award, pur non arrivando ad aggiudicarsi il premio, la fama di Robinson ha subito un’impennata ancor maggiore grazie al sorprendente endorsement di Barack Obama, il quale non si è limitato a segnalare Gilead tra i suoi libri preferiti, ma – caso pressoché senza precedenti – ha intervistato la scrittrice per la New York Review of Books”. Luca Briasco, Minimia et moralia