Nastri – Stefano Solventi #Nastri @nellogiovane69 #recensione

“Un giorno non è degno di essere chiamato giorno se non ne bevo un bicchiere, anzi meglio, un paio. Ho cinquantatrè anni e il fegato un po’ ingrossato. E’ giusto così. Tutto fa un po’ male”.

Nastri. Una favola post-rock Stefano Solventi
Editore: Eretica
Anno edizione:2017
Pagine:176 p., Brossura
In poche ore ho letto, con amabile piacere e rilassatezza, Nastri, di Stefano Solventi; la definizione in copertina del titolo è “una favola post-rock“, post che, vi chiederete? Post- tutto, in realtà: post fine del mondo conosciuto, post- esistenza della musica rock e del suo ascolto, post -possibilità di scegliere come e dove indirizzare le proprie espressioni artistiche. E’ un romanzo ambientato in un mondo distopico, anni dopo una quasi apocalisse; e la razza umana, che non si è estinta, ha inventato nuovi modi di vivere, e soprattutto, di reprimere. Perchè dopo il caos è necessario instaurare l’ordine, a tutti i costi. E perchè necessariamente se c’è un vuoto di potere per troppo tempo, di solito sopraggiunge un regime. La democrazia arriva sempre con fatica, e non è mai una cosa regalata.
I pochi protagonisti di Nastri si dividono in chi è stato giovane prima della catastrofe, chi ha visto l’altro mondo, il nostro mondo, brutto, libero, sporco, imperfetto, con ancora qualche assurda speranza che le cose possano cambiare, anche grazie a una musica che ci ha dato la forza per tutto nei momenti più bui. E chi è nato dopo l’apocalisse, in un nuovo ordine mondiale senza musica rock, con internet regolamentato, con molte meno libertà, anzi quasi nulle, ma molti altri vantaggi: più possibilità di studiare per tutti, assenza di droghe, poca disoccupazione ed estirpazione quasi totale di molte gravi malattie.

E il sunto dell’opera è quindi un po’ questo: che opzioni ci possono essere quando bisogna omologarsi per non morire, se abbia o no senso il piegarsi sempre e comunque, se sia possibile sopravvivere senza soccombere. E ovviamente questo non è tanto (solo) legato a un discorso di regime politico, ma alla vite, alle scelte che ognuno di noi, arrivato oltre i fatidici -anta, si trova di fronte. Perchè la maturità arriva portandosi con passo strascicato cose che da giovane non pensavi possibili, nella tua vita: per esempio, la poca voglia di crescere ancora, di fare, di provarci, semplicemente. Perchè tanto non arriverai mai non tanto addirittura a rifulgere, ma nemmeno un poco fuori dalla mediocrità, e quindi tanto vale battere le solite stesse strade prevedibili: l’opposizione, così naturale in gioventù, diventa orrendamente difficile mentre si cresce, ed è questa la cosa davvero spaventosa dell’invecchiare.

Per quanto riguarda trama e ambientazione, il futuro apocalittico in Nastri c’è ma non è invasivo, non è iper futuribile nè troppo descrittivo o onnipresente in megalopoli e monoliti: semplicemente, c’è. Ci sono articoli di giornale e qualche ricordo, la gente ne parla e ci vive. E’ pura realtà, non fantascienza. E Solventi ha la felice facoltà di fartelo vedere in modo minimale, ma vivo e palpabile, capacità quasi impossibile da creare in narrativa in un romanzo breve. Perciò consiglio questo libro a chi ama il rock e il punk, a chi non ama la fantascienza e a chi invece non può farne a meno, a chi ama i vecchi film noir di Jean Gabin e a chi è cresciuto con Strange Days, a chi ha una vecchia maglia di Iggy Pop e a chi ne ha appena comprata una nuova dei Ramones.
Stephen King nel suo saggio On Writing: Autobiografia di un mestiere, scrive che Non esiste un Deposito delle Idee, non c’è una Centrale delle Storie, un’Isola dei Best-Seller sepolti; le idee per un buon racconto spuntano a quel che sembra letteralmente dal nulla, ti piombano addosso di punto in bianco: due pensieri che prima erano del tutto indipendenti tutto a un tratto trovano un punto d’incontro e si concretizzano in qualcosa di assolutamente nuovo.
Io ho sempre pensato che chi legge riceve questo qualcosa di assolutamente nuovo in un secondo punto di incontro, che trasforma e fa proprio. A volte ci riflette, e ne può uscire addirittura un terzo, e così via. Perchè le idee generano idee, pensieri, ricordi. E se sta leggendo un buon libro, questo processo è inarrestabile, o quasi. Lo è soprattutto perchè un buon libro rimane con te anche nel futuro, con il tempo che passa, e quelle idee che ha fatto nascere magari sbiadiscono, eppure non muoiono.
Nastri per me è un buon libro perchè al di là della storia, della trama con qualche momento di perdonabile candore, che può o meno incontrare gusti e palati, dei personaggi riusciti anche se non sempre perfetti, al di là di tutto parla di una cosa comune a tutti noi, crescere fino al punto di invecchiare, anche se non ancora. E quel non ancora è legato a qualcosa di diverso per ognuno di noi: per me e quasi tutti i miei amici, è uno scaffale di vinili, un lato della libreria, un album pieno di biglietti di concerti che non è ancora completato, nè lo sarà per molto tempo; per qualcun altro è una corsa da completare, il sogno di un viaggio da fare, un assolo da riprovare, il colore perduto di un quadro in una mostra, il sorriso del proprio bambino che cresce. Ma per tutti credo, è quello che dice Stratos a Polly nel romanzo:
-Posso vivere benissimo anche senza.
-Certo. E’ proprio questo il punto. Puoi farlo. Puoi non farlo. Tra le due opzioni c’è un bel pezzo di quello che sei. E di quello che non sei.
Lorenza Inquisition

I’m with the Band – Pamela Des Barres #recensione #PamelaDesBarres

Ci sono cose che oggettivamente solo chi ha dedicato la vita al rock può capire. Per esempio, ti capita l’assurda botta di chiulo di essere vicina di casa di Jim Morrison o Frank Zappa negli anni Sessanta e che fai? la timida? non ne approfitti? a sedici anni? Io avrei fatto di peggio.

Pamela Miller era un’adolescente californiana carina e biondissima, cresciuta negli anni ’60 in una normalissima casa medio-borghese vicino a Los Angeles, figlia unica di due genitori che le volevano bene e la viziavano il giusto; tutto la dirigeva verso la tipicità della vita medio-borghese che attendeva lei e tutte le sue compagne di classe con cofane e reggiseni imbottiti. Invece, complice una mega prima super cotta per i Beatles, qualcosa durante quel percorso si è inceppato, e lei è diventata Pamela Des Barres, una delle più conosciute groupies di sempre, che ha avuto l’accesso diretto al backstage di tutte le band nella più grande epoca della storia del rock’n’roll. I’m with the band (uscito anche in italiano come Sto con la Band, Castelvecchi Editore) è la sua storia, quella di una ragazza con uno spirito libero e mai meschino, che si è trovata al posto giusto nel momento giusto, o ha fatto di tutto per esserlo, e al di là della dolcissima avventatezza delle sue varie avventure (non necessariamente sessuali), fa piacere vedere che aveva una testa e la usava (anche se non sempre, ma era molto giovane, va ricordato) e che nonostante la superficialità di molte scelte manteneva un’anima profonda e generosa, sempre in cerca di un miglioramento intellettuale e di un reale sviluppo interiore. Non ci sarà sempre riuscita, ma d’altra parte chi siamo noi per giudicarla adesso nel suo percorso? Il libro ripercorre la personale ascesa di Pamela nel mondo del rock a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 a fianco di musicisti diventati poi icone (Jim Morrison, Gram Parsons, Jimmy Page, Mick Jagger, Frank Zappa, Keith Moon, citando solo i più famosi). Di alcuni fu solo amica, di altri invece fu ragazza/amante/donna del momento per qualche giorno al mese, per qualche tempo: non troveremo qui le vuote scorribande di una ninfomane assatanata, Miss Pamela si innamorava davvero dei suoi idoli e ricambiava il dono della musica e della loro attenzione con tutto l’amore e la devozione possibili, soffrendo sempre quando inevitabilmente si allontavano verso i loro sogni di gloria rockenrolla lasciandola con il cuore spezzato.

Il termine “groupie” evoca in genere una serie di reazioni emozionali, che vanno dallo “zoccola” al “musa ispiratrice”, ma in genere si assestano sul dispregiativo diminutivo. Personalmente non mi sento di denigrare le scelte di chi ha voluto essere entusiasta e disponibile verso i propri idoli. Anche perchè siamo sempre lì, se Gene Simmons proclama di avere fatto sesso con circa 5.000 donne, lui riceve pacche sulle spalle perchè è troppo uno stallone per essersene approfittato, e le 5.000 femmine sono una massa di zoccole. Al tempo stesso, la Des Barres, che ha vissuto la propria vita al massimo sfruttando tutte le occasioni che le si offrivano, senza rimorsi e scrollandosi di dosso la morale bene dei tempi, racconta in modo assolutamente onesto le proprie intenzioni, che erano a volte dettate da semplice concupiscenza verso questo o quel personaggio della scena rock, ma per lo più da reale desiderio di conoscere quella persona e passarci del tempo insieme, non solo a letto, sentimento in genere ricambiato dalla rock star scelta. D’altronde lo stesso Keith Richards, nel suo Life, definisce con chiarezza i tre tipi di donna che puoi incontrare nella vita di un musicista rock: ci sono le ragazze che usi solo per il soddisfacimento sessuale di qualche ora, di quelle che usi per un tanto al chilo, e che ti usano a loro volta per la fama di riflesso che avranno nel raccontare di essersi trombate uno dei Rolling Stones; poi ci sono le donne di cui ti innamori, che sposerai, con cui farai figli (le due categorie sono esclusive ma non separate: amare tua moglie che è a casa non vuol dire non avere voglia di fare sesso quella sera con una sconosciuta che ti dimenticherai nel preciso momento in cui esce dalla tua vita per sempre chiudendosi alle spalle la porta della stanza del tuo albergo o del tuo camerino). E poi c’erano le groupies, quelle che ti confortano mentre sei in tour lontano da casa da mesi e hai un brutto trip di acido, che ti abbracciano e coccolano dopo che hai dato tutto sul palco, un piccolo porto di calore in mesi di alienazione tra concerti, registrazioni, droghe e vita sfatta. Non erano lì solo per il sesso, e non ci si poteva costruire una vita insieme, ma le si rispettava come compagne del momento e si aveva di loro un bel ricordo.

Attraverso tutte le sue avventure nel mondo del testosterone rockenrollo, Pamela è sempre circondata e supportata dal reciproco affetto del suo gruppetto di amiche groupies, un tema che ho trovato simpaticamente piacevole: anche con quelle ragazze con cui rivaleggiava per l’attenzione di qualche rockstar, non c’erano mai reali sentimenti di odio o rivalità, anzi in genere diventavano sempre amiche. Non ci sono meschinerie o scenate, e se pensiamo che stiamo parlando di ragazzine tutte dai 17 ai 23 anni, la cosa è abbastanza sorprendente. Per comparazione, basti pensare alle scenate isteriche virtuali delle migliaia di fan delle boy band dei nostri tempi quando una di loro per un qualsiasi motivo ottiene un momento di celebrità per un bacio con uno degli idoli: si scatenano insulti, minacce, scene da Gehenna e Godzilla a Manhattan.

La scrittura in sè, è tremenda. La cosa è alquanto sconcertante se si pensa che l’autrice ha scritto pure altri libri, e che si definisce “giornalista”; ma sul serio, è penosa. Le parti peggiori sono poi quelle dei suoi diari, che lei ha tenuto durante tutta la sua vita e che hanno quindi permesso una documentazione accurata degli avvenimenti, insieme con foto e stralci di lettere; ma le frasi che si impegna a mettere insieme sono di una bruttezza imbarazzante. Tuttavia, se è scritto male, è però sempre sincero: è impossibile rimanere indifferenti alla sua sofferenza di ragazza corteggiata da Jimmy Page e che dopo qualche serata fantastica e un biglietto aereo che le permette di andare in tour con i Led Zeppelin per qualche settimana, viene lasciata al telefono con un Mi faccio sentire io seguito dal classico Non sei tu, lo sai, sono io. Anche le rockstar sono uomini e pure super vermi, care le mie Holly Golightlies.

Al di là del fatto che in ogni caso la nostra Pamela non sarebbe letterariamente all’altezza di certe descrizioni, è un po’ strano che pur essendo un libro sul momento più alto della storia del rock, di musica rock ce ne sia così poca: è vano attendere un’esposizione di cosa fosse un concerto degli Stones, di come ci si sentisse a guardare un assolo di Jimmy Page, di un momento in cui la discussione artistica esplodeva tra Gram Parsons e Keith Richards e ci fosse lì qualcuno a testimoniarlo. Non c’è mai una vera e propria impressione della musica che questi uomini effettivamente suonavano, dello stile che ricercavano, del momento creativo inseguito: per quello che ne riferisce Pamela, gli Stones avrebbero potuto essere dei bardii che declamavano i poeti maledetti francesi nudi a turno dal palco, e a lei non sarebbe importato, finchè fossero rimasti i più idolatrati proclamatori nudi di Rimbaud dal palco del mondo. E per me, da fan del rock, questa è la più grave mancanza del libro, anche se devo riconoscere che dove fallisce nel parlarci dei momenti della musica rock vissuti di fianco agli artisti che l’hanno creata, riesce a trasmetterci piccole istantanee, intime e dettagliate, di alcuni di questi uomini (la cosa ha ovviamente senso: con questi musicisti andava per lo più a letto, non in sala di registrazione.

Al tempo stesso, pensando a donne per cui sono state scritte canzoni immortali, è un po’ triste pensare che tutto quello che ha dato Pamela nelle relazioni con questi artisti non sia mai stato in fondo pienamente ricambiato; a lei ora non importa, e va bene. Ma per me, rimane un poco triste lo stesso.

In ogni caso, è una ragazza che Frank Zappa, Mick Jagger, Gram Parsons, Jimmy Page, Robert Plant, Keith Moon (ma anche Don Johnson e Woody Allen) hanno considerato degna di essere amica e/o amante, e dunque non vedo perché debba io avere riserve sul personaggio. E’ vero, forse molte di queste rock star l’hanno per lo più usata sessualmente, forse non c’è stata profonda e vera intimità. Ma Miss Pamela non se ne è preoccupata mai, perchè era troppo intenta a divertirsi, a sognare, a progettare nuove mises e a spassarsela: e il suo messaggio, ancora dopo quasi cinquant’anni, è proprio questo. Nessuno, nemmeno la più famosa rock star del mondo può farti sentire usato, sporco, inferiore, se sei in pace con te stessa e stai vivendo la tua vita proprio come ti va di farlo.

Delle 400 pagine di quest’opera, almeno le ultime 100 sono comunque di troppo, per me. Perchè all’inizio, mentre Pamela vaga coi suoi occhioni sgranati nel mondo rockenrollo che le si spalanca davanti, senza parole e imbambolata davanti ai suoi idoli, è impossibile non provare entusiasmo con lei. E anche dopo, quando è entrata un poco nella scena ma si arrabatta per mantenersi con lavoretti (perchè le va riconosciuto, onestamente, che pur con tutte le possibilità che ha avuto di approfittarsene un po’, il massimo che chiedeva alle rockstar erano i biglietti dei concerti ed occasionalmente un trasporto per andare a vederli in tour: ma per il resto, si è sempre pagata tutto di tasca sua, al massimo domandando piccoli prestiti ai genitori) cercando di capire come trovare la propria vena artistica, cercando di “fare” qualcosa, circondata da tutti questi giganti della creatività, la si segue volentieri. Però arrivati a quest’ultima parte, Miss Pamela è una signorina ormai ventiseienne, che ha vissuto nel suo modo non convenzionale da quando ne aveva sedici, e improvvisamente comincia a chiedersi se non ci sia qualcosa di più, di diverso, di altro, che non inseguire come una pazza dei musicisti rock per portarseli a letto. E’ comunque una ragazza americana, come tutte allevata nel mito di affermarsi nella propria vita, inseguire una carriera, e poi costruire una famiglia: e il fatto che non si sia uniformata alla corrente di pensiero imperante, non vuol dire che non meditasse sulla sua validità intrinseca. Soprattutto, poi, la realtà comincia a farsi strada anche nel suo sogno dorato: non ha una casa propria nè una relazione fissa, e pur essendo ormai una persona del giro, ogni volta che si presenta da una nuova rockstar emergente è in competizione con file di ragazzine di dieci anni più giovani di lei, che vogliono spodestarla. E a poco a poco, pur così giovani, cominciano anche a morire i compagni di avventure di una vita, falciati da malattie sessuali e abusi di droghe.

Perciò tutta l’ultima parte del libro è incentrata su questi suoi problemi esistenziali e dilemma spirituali, nonchè sulla ricerca dell’uomo con cui mettere su casa: e a sto punto, se la brutta grammatica e le frasi infelici si sopportano finchè ci sono in scena Mick Jagger o Robert Plant, tutta ‘sta sezione diventa un insopportabile trip di scrittura scadente e melodramma da Harmony spiegazzato, che finalmente termina nel momento in cui incontra il Des Barres, e convolano felicemente a nozze.

In questo libro c’è tutto questo, ma per fortuna molto molto di più: fantastiche descrizioni di un mondo hippie in cui andare in giro vestiti in abiti elisabettiani era considerato il massimo della moda, comuni zozze e post concerti orgiastici, sale da pranzo-boudoir e mescalina, Frank Zappa e Jim Morrison che le fanno lezioni sul mantenere sempre il controllo prendendo poche droghe (consiglio che seguirà di cuore, e probabilmente è anche per questo che è ancora qui sana a raccontarcelo), le fruste che Jimmy Page teneva in valigia e le famigerate Plaster Caster (le ingessatrici che collezionavano calchi di sessi maschili da esse stesse, ahem, “preparati”) e un mondo pre-security pre-Chapman, in cui le rockstar erano sì divinità ma non inavvicinabili, e il pensiero di pace e amore dell’epoca dei figli dei fiori era ancora una realtà possibile, non un’utopia.

E’ un libro comunque molto piacevole e interessante per chi bazzica il mondo rockenrollo, se non scritto bene, per lo meno sempre sincero, lieve, e molto onesto. Lorenza Inquisition

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