Chimamanda Ngozi Adichie – Americanah #Americanah

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Ma che bello questo libro, ricco, intenso, divertente. La scrittura è magnifica. Chimamanda Ngozi Adichie (sì, lo so) è la golden girl della letteratura nigeriana moderna, scrive in inglese su temi attuali riuscendo ad attrarre nuovo pubblico occidentale verso la produzione letteraria africana (tutte le sue opere sono tradotte anche in italiano, comunque). Americanah è un romanzo contemporaneo, ambientato per metà in America e in Inghilterra.

E’ la storia di una giovane donna nigeriana, Imefelu, che nel 2000, durante il primo anno di Università a Lagos è costretta a mesi di inattività perchè il governo -militare- non paga da mesi i dipendenti governativi, e quindi anche gli insegnanti che, inaspriti, scioperano. Imefelu perde un anno di iscrizione universitaria perchè non ci sono lezioni, ed esasperata, come centinaia di giovani suoi pari, fa domanda per continuare gli studi all’estero, ottenendo una piccola borsa di studio per l’America, dove poi rimarrà per i 15 anni successivi. Il romanzo va a ritroso, inizia quando Imefelu sta per tornare in Nigeria, ormai trasformata in quello che i locali chiamano Americanah, una persona che ha vissuto all’estero così tanto che non sa più essere Nigeriana.

Ci sono tre diversi livelli di storie in questo romanzo: innanzitutto, c’è la Nigeria. Le strade caotiche e i vestiti colorati, il platano fritto e lo stufato di arachidi, le signore bene che si fanno fotografare nelle loro case su divani di pelle vicino a busti dorati con alle spalle gli scatoloni di riso e zucchero che andranno a donare alle Missioni cattoliche. Ci sono la corruzione e i nuovi ricchi, che spendono per ostentare il loro status: bambinaie straniere e maggiordomi, camerieri e portieri in divisa, scuole francesi o inglesi per i bambini.

Poi c’è l’America. Non gli Stati Uniti di chi atterra con parenti ricchi e borse di studio prestigiose, ma quelli di chi arriva da povero, e da povero comincia, con lavori in nero e persone che umiliano. E’ vero che l’America è il Paese delle opportunità, ma sono opportunità che spesso non si presentano per anni, e a volte anche lì si ricorre alla scorciatoia: tanto vale sfruttare la conoscenza, il ragazzo ricco, la propria bellezza.

Il terzo tema, il più profondo e il principale motivo che ricorre lungo tutto il romanzo, è il razzismo. La protagonista è una persona che non si è mai sentita “nera” se non nel momento in cui entra negli Stati Uniti. Nero nel suo Paese di origine è un dato di fatto, uno stato fisico, non un insulto. Imefelu si trasferisce in un Paese in cui il problema della razza è una questione scottante e irrisolta, e soprattutto, paradossalmente, negata. Non dai conservatori o dai bianchi poveri, ignoranti, violenti e fanaticamente razzisti: sono proprio gli americani progressisti i veri negazionisti. Come dice Imelefelu: “Vi sono infiniti libri sulla schiavitù o sulla separazione razziale negli anni ’50 che permettono a qualsiasi progressista di dire Beh sì è vero c’è ancora qualche problema da noi, ma guarda quanta strada abbiamo fatto da allora! Ma la questione razziale è una bastardata che non avrebbe mai dovuto neanche nascere, e non devi stare a darti delle pacche sulle spalle perchè dagli anni 60 ci sono stati progressi. Non devi pensare a quanto siete stati fighi da allora, devi pensare di fare meglio anche adesso, ancora di più”.

Questo è un libro che contiene un sacco di cose, immigrazione ed emigrazione, razzismo e relazioni interraziali, quello che si è disposti a fare per integrarsi in un gruppo e cosa significhi lasciare casa, famiglia e patria. E’ anche, di base, la storia di quello che succede quando si sogna di avere una vita migliore, e si fa di tutto per realizzare questo sogno, solo per arrivare a capire con l’età che la vita “migliore” non è quello per cui si è lottato tutto il tempo.

Ci sono due o tre difetti che non definirei minori, è molto lungo, e le tirate sul razzismo, sulla politica e sull’ideologia razziale sono, soprattutto verso la fine, troppe. Ma scrive così bene che onestamente a me non è pesato molto, anche se capisco che non per tutti possa essere così.

Credo che il difetto principale siano comunque i drastici cambi di direzione che ogni tanto il romanzo prende: parte come narrativa pura, vira verso il diario semiautobiografico con l’autrice che fa capolino con le proprie esperienze di emigrata e di donna di colore in una società ancora fortemente discriminante a livello razziale, riprende il tema fiction per diventare un po’ saggio quando la protagonista apre un blog e vengono buttati in mezzo alla narrazione i vari articoli, e finisce come romanzo d’amore (comunque a me è piaciuto, sono una romanticona, si sa). Insomma, un po’ lungo, un po’ incasinato, un po’ pesante a volte. Va beh, non ho mica detto che è perfetto, ho detto che è un bellissimo libro!

4 stelle su 5, e baci diffusi.

Lorenza Inquisition

Toni Morrison – Prima i bambini

«Non c’è voluta più di un’ora dopo che me l’hanno tirata fuori da in mezzo alle gambe per capire che qualcosa non andava. Non andava proprio. Era così nera da farmi paura».

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Toni Morrison racconta dolorose storie di riscatto, razzismo, perdita d’identità, analizzando con lucidità e profondità la storia e l’evoluzione  della società americana. E, anche se è una signora ormai anziana, ancora oggi riesce a farlo con una leggerezza e modernità che la rendono unica.

Il suo nuovo libro, appena uscito, si intitola Prima i bambini (Frassinelli), in inglese God help the child (Dio aiuti il bambino, la bambina) ed è ambientato ai giorni nostri.

Nella challenge 2015 ho letto anche l’ultima opera della Morrison. Che dire? È un nì per me, ma mi ha dato spunto per un sacco di riflessioni.
La storia si apre con una madre, che racconta della nascita della figlia. Una bambina nerissima, troppo nera, e della sua conseguente incapacità di amarla. Più avanti ritroviamo il viaggio di questa bambina ormai donna adulta attraverso i suoi fantasmi presenti e passati. Non dico altro per non fare SPOILER. Adoro il modo di scrivere della Morrison, la trama l’ho amata un pò meno. Avrei tanto preferito un libro più visto dalla prospettiva della madre, questa madre afroamericana così vera da sembrare quasi un diario.

Commentando così il libro su un altro gruppo di letteratura afroamericana, una lettrice mi ha chiesto cosa mi possa mai essere piaciuto di questa “non madre”. Rispondo che Di aver dato una lettura forse diversa.
tante volte mi trovo a lavorare e a venire in contatto con donne africane severissime ed aspre con i propri figli. Ho sempre visto le loro maniere forti provenire da una cultura in cui l’amore materno viene espresso “in altro modo”. Non so se avete familiarità con le procedure di massaggio africano ai neonati, un vigoroso appunto massaggio in cui il corpicino del bimbo viene “pressato” e strattonato due volte al giorno per almeno i primi tre mesi di vita del bimbo per garantirgli più avanti forza e prestanza fisica. Ai nostri occhi europei una sorta di barbarie, di fatto un vero e proprio atto d’amore che la madre nigeriana pratica, probabilmente con non poca sofferenza interiore, perché culturalmente sicura di apportare un beneficio al nascituro. Forse ho trovato un esempio un po’ zoppicante, ma ho visto questa madre della protagonista come una donna vittima di un retaggio culturale che penalizza l’amore espresso come lo intendiamo noi. Non dico che sia una figura positiva, attenzione, ma più che mai viva e vera. Può una donna nera penalizzare una figlia nera perché più nera di lei? Perché troppo nera? Succede persino oggi, succede persino in Italia, dove le creme sbiancanti vengono adoperate addirittura sui bambini. E la colpa è della madre che crede che il nero sia sbagliato, che possa essere “troppo” o di chi le ha inculcato questa idea in testa? La sofferenza di questa donna di fronte al colore tanto scuro della figlia non è forse un atto di amore e protezione materna?

Marzia Akosua Raimondo

Perché “«Quello che fai ai bambini conta. E non dimenticano più».

 Protagonista del nuovo romanzo di Toni Morrison – il primo ambientato in epoca contemporanea – è una giovane donna che si è scelta il nome di Bride, di bellezza straordinaria, anzitutto per la pelle di un nero lucente e assoluto, che l’ha resa unica e le ha dato successo. Famosa e richiestissima, Bride pare aver cancellato così l’insicurezza e la fragilità dell’infanzia, segnata da una madre fredda che non l’ha mai accettata proprio per quella pelle d’ebano tanto, troppo, più scura della sua. E le ha negato anche la più semplice delle forme d’amore. Ora, però, il passato torna per metterla alla prova, e per Bride arriva il momento di fare i conti davvero con la bambina che è stata, senza menzogne, né le proprie né quelle degli altri. Quelle di Booker, l’amante pieno di rabbia che è stato testimone della peggiore delle violenze. Quelle di Sweetness, la madre distante che l’ha respinta anche nel momento più difficile. Quelle della stessa Bride, disposta a tutto per una briciola d’affetto. I mali dell’infanzia non si dimenticano mai, è vero, ma si può scegliere di non restarne prigionieri e di essere liberi, per guardare al futuro con serenità.