Open – Andrè Agassi #Open #AndreAgassi

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Dunque. Da che questo libro è uscito, nel 2009, il solo costante aggettivo che lo accompagnava quando ne sentivo parlare era: capolavoro. Amici, amiche, stampa, critica letteraria, chiunque: capolavoro. Ovviamente l’ho messo in wish-list da quell’anno lì, eppure non lo leggevo. Perchè? Perchè se vuoi leggere una biografia, o un’autobiografia, di base, ti deve interessare un minimo se non la persona di cui si sta parlando, per lo meno il periodo storico in cui il protagonista ha vissuto, o il contesto in cui si svolge la sua vita. E fondamentalmente a me del tennis, dei grandi campioni del tennis, del bel giuoco del tennis, passato, presente e futuro, non mi è mai importato nulla, zero meno di zero. E questa è la premessa con cui ho iniziato questo libro, con anni di ritardo perchè non trovavo in esso una scintilla di interesse che mi potesse coinvolgere, aspettandomi un capolavoro che mi trascinasse via. E dopo il primo quarto del libro, che è stato in effetti abbastanza avvincente, mi sono invece trovata ad arrancargli dietro, a metterlo da parte per giorni interi cominciando e finendo altri libri nel frattempo, sempre guardandolo lì sul comodino virtuale del kindle col faccione di Agassi che mi fissava colpevolizzandomi, “Nessuno mi ama, neanche tu, e odio il tennis”.

Ero all’incirca a metà del libro quando Sara ha fatto la sua recensione che mi ha aiutato a comprendere che non sono una cattiva persona anche se Open non mi pareva un capolavoro. Parlando di un grande e amato campione mondiale, forse bisognerebbe separare il racconto dalla figura mediatica: posso capire che molti abbiano trovato incredibilmente ispirevole e onesto il rivelatorio diario di una persona fino ad allora raggiungibile solo attraverso i tabloid. Posso capire che finalmente avere Agassi così aperto con il suo pubblico venga da molti considerato una pietra miliare nella storia delle biografie sportive, e della sua figura di uomo dietro il ruolo di campione, soprattutto perchè lo fa senza autoincesarsi e senza mettersi mai in una luce di eroismo sportivo.

Ma il racconto, cioè il libro, non è solo questo onesto dialogo: è un dialogo lunghissimo, infinito, ripetitivo e spesso pure un po’ piagnone, di milioni di sbirilliardi di telecronache di partite minuto per minuto, palla su palla, racchettata su rovescio su dritto.

Per me, la parte più debole di questo libro, paradossalmente, è proprio il tennis, quello giocato soprattutto. Le descrizioni da quando Agassi diventa professionista fino a quando gioca la sua ultima partita sono piatte, bidimensionali, senza qualità drammaturgiche, poco incalzanti nonostante siano spesso racconti di mega finali di top series, e i famosi episodi della droga, del parrucchino e dei suoi dolori fisici (a parte l’inizio) sappiamo che sono veri ma sono descritti in modo confezionato, prematurato e anche un po’ supercazzolato. Definire questo libro “capolavoro” letterariamente, per me, non ha senso. Comunque l’ho finito (parte l’Hallelujah di Handel), passando altre mille infinite descrizioni di partite di cui non mi interessava il lato tecnico, e sul cui lato umano l’approccio del campione era sempre un’unica lamentela sui suoi dolori fisici, la poca sportività dei suoi avversari, l’odio della stampa che lo avversava insieme ai giudici di gara. E’ certo ammirevole che un top player si metta a nudo così. Io però ci ho letto per la maggior parte delle volte un certo vittimismo che me lo rendeva più distante e generalmente mi irritava, invece di farmelo trovare più umanamente vicino.

E’ chiaro che in storie con personaggi del genere, a seconda del tuo carattere e delle tue esperienze, o ti immedesimi ed empatizzi, o ti distacchi dal protagonista e trovi sempre e comunque un qualcosa da criticare. Tutta la prima parte, l’educazione con il padre psicotico che lo ha costretto agli allenamenti per tutta l’infanzia e l’adolescenza, mi hanno molto colpito. Tuttavia ricordo che molti anni fa vidi un’intervista a Nadia Comaneci, che sbrigativamente liquidò la questione sul fatto di avere avuto un’infanzia orribile (come tutti i giovani atleti prodigio del mondo) rispetto a quella di altri bambini: E’ vero, non ho avuto un’infanzia bella, libera, e spensierata con giochi, gelato, e feste di compleanno. Ho avuto ore e ore di allenamenti tutti i giorni, dai 6 anni fino a quando sono andata in pensione a 24 anni. Ma sono andata in pensione a 24 anni, ricca, famosa, e onorata in Patria.

La Comaneci probabilmente non ha avuto un padre psicotico, o forse con pragmatismo di persona cresciuta oltre la Cortina di Ferro ha compartimentalizzato il problema e se lo è risolto col tempo, questo non lo sappiamo perchè in effetti Open è unico, nel suo mettere a nudo l’animo del protagonista, anche se il suo problema non è unico, come ammette lui stesso quando parla, per esempio, del padre di Steffi Graff.

Se ci sono molte cose che non mi sono piaciute in questo libro, devo però essere onesta e dire che quelle che mi sono piaciute mi sono DAVVERO piaciute, e secondo me sono letterariamente davvero molto buone, perchè rimangono, fanno pensare, ti fanno vedere il campione e la sua vera vita di essere umano: il padre psicotico, e la macchina sparapalle chiamata drago; il ragazzino invincibile che diventa ribelle (e calvo) e i dialoghi con suo fratello Phil e il suo migliore amico Perry; il soggiorno nella terribile caserma-accademia sportiva di Nik Bollettieri; lo splendido rapporto umano con Gil Reyes, il suo preparatore atletico, e alcune considerazioni su Sampras, soprattutto verso la fine della carriera di entrambi. Poi, alcune belle pagine nel raccontare il rapporto con Brooke Shields (non la fine, ovviamente), e con Steffi Graff.

Quindi. In generale, io non ho empatizzato troppo col protagonista, anche se mi sforzavo in ogni momento di ricordare che era un ragazzino cresciuto male buttato in un mondo di competizione estrema fra squali adulti. Non posso dire che il libro sia brutto, anzi, e in ogni caso mi ha fatto molto riflettere e pensare. Credo che se fosse stato anche solo cento pagine più breve, l’avrei apprezzato mooolto di più.

Voglio comunque chiudere ricordando quei rari momenti di poesia in cui descrive quando riesce a colpire una pallina in maniera perfetta, perchè solo quell’impatto può dargli la serenità e la felicità, anche se dura lo spazio di un secondo, in cui è condensata una vita intera. Per uno diventato un top player trascorrendo un’infanzia allucinante giocando contro un drago meccanico, non è mica poco, e il senso, per lui come per noi, sta un po’ tutto qui: colpisci sta palla e non guardarti indietro.

Lorenza Inquisition

PS. Nota del recensorre: ci sono anche io in un pezzetto piiiiiiccolo della sua vita: quando racconta di essere andato nel ’99 a Bercy a vedere Springsteen e la gente lo riconosce e tutti cominciano a gridare Allez Agassi e lui tutto contento… e io ero giù nel parterre ad applaudire pure io anche se non sapevo bene cosa cosa.

336624 03: Seven-Year Old Andre Agassi Plays Tennis April 1977 In Las Vegas, Nv. Agassi Becomes One Of The Top Tennis Players. (Photo By John Russell/Getty Images)
336624 03: Seven-Year Old Andre Agassi Plays Tennis April 1977 In Las Vegas, Nv. Agassi Becomes One Of The Top Tennis Players. (Photo By John Russell/Getty Images)

Non sapevamo giocare a niente – Emma Reyes @edizioniSUR #EmmaReyes

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Emma Reyes. Prima di acquistare questo libro, nulla conoscevo di lei. Una donna colombiana, una pittrice, per tutta la sua vita. Non è stata una scrittrice, o meglio, ha scritto solo questo libro. Se vogliamo specificare ancora meglio, è morta da non-scrittrice. Il libro è uscito postumo. Questo è un epistolario, composto da 23 lettere che Emma spedì al suo amico Gèrman Arciniegas, dalla Francia alla Colombia, nell’arco di ben trent’anni. Un viaggio a ritroso, le lettere che spedisce al suo Paese natio, e che a ritroso vanno a raccontare la sua infanzia. Infanzia drammatica, dolorosa, incredibile, assurda.
La prefazione di Tiziana Lo Porto è bellissima: “E’ di alcuni scrittori un talento speciale nel raccontare l’infanzia. L’ altrui alcune volte, altre volte la propria. I migliori sono quelli che da adulti riescono a essere bambini, credibili in ogni improbabile fantastico accadimento narrato, come credibili sanno essere solo i bambini. Scrivono libri per dire al mondo la propria infanzia e, al tempo stesso, per prendersi cura di sè stessi bambini”. Bellissimo. Ed è così.

Emma racconta i suoi primi anni di vita, da quando aveva 4 anni, con sua sorella, di un anno e mezzo più grande. C’è una donna, con loro, non sappiamo se fosse la mamma, ma da madre non si comporta. Non c’è nessun padre. C’è una stanza, in cui vengono recluse per tutto il giorno. Povertà assoluta, i migliori momenti sono quelli dove si gioca con altri bambini in una discarica, in mezzo al fango. Sono buttate in un angolo come oggetti, con pochissimo cibo, una povertà spaventosa. Costrette a lavorare. Ma sono bambine, Dio santo, sono solo due bambine. Nessuno le ama. Nessuno le considera non solo come figlie, ma anche solo come esseri umani. Sono due pesi, due pacchi da esibire e da portare in giro solo quando serve, e ogni volta che si sposteranno saranno rinchiuse dietro ad una porta, ad un cancello, ad un lucchetto. Ed ecco il convento.

“Faceva tutto parte del mondo eccetto noi… Non ci era permesso chiedere spiegazioni su niente, qualunque cosa riguardasse il mondo era peccato punto e basta; per questo nelle nostre preghiere, sia in quelle prima di iniziare a lavorare sia in quelle della sera, dicevamo sempre un paio di Ave Maria per i nostri clienti peccatori che ci beneficiavano perché noi potessimo mangiare e salvarci l’anima.”
Faceva tutto parte del mondo…eccetto noi…

In questi lunghissimi anni ci saranno momenti belli, ma sono troppi, i momenti di sofferenza, di dolore vero. Ma è qui che la Reyes mostra la sua originale bravura. Non penso che la maggioranza di noi, avendo passato quel che ha passato lei, avrebbe la forza di raccontarlo. Lei ce l’ha, e riesce a farlo con lo sguardo della bambina che era, con la curiosità che aveva a quel tempo, con lo stupore che aveva, l’incoscienza che aveva. E’ Emma bambina, che ci scrive, ed è terribilmente magnifico. E ci mostra quanto i bambini riescano a trovare rifugio nelle illusioni, nei sogni, nella fantasia, quando la realtà si mostra malvagia verso di loro. Bambini pieni, ricolmi di paura, paura in massima parte causata dagli adulti. E’ una storia che è lontanissima da noi, temporalmente, eppure siamo lì con lei, sentiamo il suo dolore. E’ faticoso, leggere. E’ faticoso ascoltare quel dolore. Ma colpisce il come ce lo descriva, non tanto la sua quantità. Ogni lettera si conclude con una frase che è uno stiletto al cuore. La numero otto per me è stata la più dura da mandare giù, e finisce, infatti, con una frase che spiega bene i sentimenti provati dalla scrittrice e anche dal lettore: “Mio caro, sono triste perchè questa lettera non è venuta come avrei voluto, ma non ho il coraggio di riscriverla”.
“Non piangevo, perchè le lacrime non sarebbero bastate, non urlavo perchè il sentimento di ribellione era più forte della mia voce”. Non la dimenticherò mai, la lettera numero otto.

Questa donna ha imparato a leggere e a scrivere da adulta. Riflettiamo su questo, su quanta forza abbia avuto nel cuore per arrivare a questi livelli. La forza di queste lettere sta nella quasi totale perdita della condizione di scrittrice adulta: non c’è una Emma Reyes che racconta la sua infanzia, c’è Emma Reyes bambina che ci sta raccontando minuziosamente quello che sta vivendo con la proprietà di linguaggio di Emma Reyes adulta.

Chiudo, di nuovo attingendo alla prefazione:
“Non sempre devi voler essere scrittore per diventarlo. Nè devi scrivere molti libri. Emma Reyes non voleva diventare una scrittrice, e di libro ne ha scritto solo uno, questo. E tuttavia basta leggere poche pagine per capire che la scrittura è un’arte di cui è stata padrona tanto quanto lo è stata della vita. Poi, a cercare ancora un po’ tra quel che resta di Emma Reyes, si scopre che la cosa che scriveva soprattutto erano amorose impareggiabili lettere agli amici. Lettere comiche, affettuose, dolorose, che scriveva e mandava senza mai ostentare nulla, solo per dare notizia di sé e mantenere vivo il sentimento nella distanza dalle città vissuteo di passaggio e dalle persone amate o anche semplicemente rispettate che in un modo o nell’altro avevano migliorato la sua vita, come capita sempre quando si vive sparsi per il mondo. A oggi non ci sono biografie di Emma Reyes e tutto quello che si sa di lei lo abbiamo appreso dagli amici. Che è un bel modo di sapere. Dicono che di lettere ne abbia scritte a centinaia. Dicono che le lettere le scriveva su una stupenda carta di seta dai colori pastello. Dicono che aveva una calligrafia curiosa, piena di errori di ortografia forse dovuti al fatto che aveva imparato a leggere e scrivere adolescente, forse alla noncuranza. Ma gli amici erano innamorati di quegli errori, mai difetto e sempre valore aggiunto, qualcosa non da compatire ma quasi da invidiare. Uno spagnolo calpestato e scritto a mano, con qualche s in meno e alcune parole francesi in più. Nessuno più scrive così”.

Musica: Jeremy, Pearl Jam
https://youtu.be/MS91knuzoOA

carlo mars