A misura d’uomo – Roberto Camurri #RobertoCamurri @nellogiovane69 #NNeditore

“Spegne la macchina, si guarda attorno, guarda il sole riempire il cielo, è tanto azzurro che gli sembra quasi di essere felice, sereno, gli sembra, mentre scende, mentre si siede sul cofano, che tutto sia a posto, che tutto sia inutile, che tutto ciò che sente ribollirgli dentro sia soltanto un peso, qualcosa che lo tiene aggrappato lì, che aveva solo bisogno di rendersene conto.”

 

La tentazione di affermare che il protagonista vero di A misura d’uomo sia Fabbrico, una delle tante cittadine cul-de-sac della provincia italiana, è forte. È automatica. In realtà, la Fabbrico reale di Camurri – reale come può esserlo il luogo in cui si è nati – ha qualcosa della Holt immaginaria (stavo per scrivere “virtuale”, povero me) del compagno di casa editrice Kent Haruf. È un luogo scontornato dalla memoria, uno stralcio di realtà piegato alle esigenze poetiche e scenografiche, simbolo di uno scenario più vasto, diffuso, immanente. Di uno stato d’animo.
Sì, credo che questa Fabbrico sia qualcosa di più e di meno, di altro. Credo che alluda al vero protagonista del libro: vale a dire il Grande Nulla, più o meno lo stesso che cantava il buon Elliott Smith, antieroe di tutti i naufragati della generazione X (quasi Y). Il Nulla bacino di raccolta di tutte le prospettive fatte detriti, franate inesorabilmente, placidamente, come legge di natura.
Nei racconti che si fanno capitoli – sezioni di fili narrativi che si disperdono in avanti e indietro, abitati da personaggi (Valerio, Mario, Anela – che nome straordinario, Anela… ) che diventano testimoni dell’azione del tempo – assistiamo al Nulla in azione, squarcio invisibile e silenzioso che divora giorno dopo giorno tutto ciò per cui vale la pena (vivere, amare, combattere, credere…). In questo senso – e col condimento di dipendenze, ossessioni, follia, traumi, delusioni, malattia – la lettura di questo libro ti lascia in dono una visione spietata, persino cinica, dello stare al mondo. Ma la bravura di Camurri sta proprio nel rendere umano tutto questo, e prezioso, degno della fatica di vivere. In ogni capitolo-racconto c’è un testimone che viene portato avanti malgrado tutto (malgrado il dolore, l’insensatezza, l’apatia, la crudeltà). C’è, non saprei in quale altro modo dirlo, amore.
Difetti? Un po’ troppo unificati i personaggi, forse. E a tratti, solo a tratti, si avverte il sapore di uno stile acerbo, che deve ancora trovare il suo massimo di economia e potenza. Tutto questo però sostenuto da una scrittura chiara ed efficace, che ti fa intuire in Camurri la forza e la statura per portarla a un grado di maturità superiore.

 

Stefano Solventi

Kent Haruf – Crepuscolo #KentHaruf

 Kent Haruf – Trilogia del Canto della pianura (NN editore)

Crepuscolo_cover_def_piatto

In questo Crepuscolo c’è un episodio, del tutto marginale, che tuttavia mi sembra emblematico: il toro azzoppato in un incidente stradale a cui il padrone spara per abbreviarne le sofferenze, malgrado un poliziotto gli intimi di non farlo perché atto contrario alla legge. È un breve, folgorante sipario di umanità, di dolore che proviene da lontano e si risolve in un gesto di pietà che va oltre le convenienze. Alla fine il poliziotto non applicherà la legge.

Con Crepuscolo ho terminato la trilogia della pianura di Haruf. A mio avviso è il capitolo più fragile dei tre, seppure di poco. Detto che la sequenza originale si chiudeva con Benedizione (il vero crepuscolo, a ben vedere), bisogna sottolineare innanzitutto il senso di ciclicità intrinseca, come se lo spaccato di vite chiudessero un cerchio che non si chiude mai davvero, perfettamente emblematico nel suo rifuggere la legge narrativa della conclusione. L’unica conclusione sembra essere la morte, vissuta (!) però come momento di transizione tra condizioni esistenziali diverse, con un abbandono e una naturalezza che incantano. Qui mi sembra si possa individuare la radice dell’ottimismo di Haruf, la fiducia nell’agire che riscatta l’errore e l’orrore. La cattiveria, il male, sono frutto di condizioni sociali e culturali problematiche, sbagliate, non c’è mai nei personaggi negativi una vera “convinzione del male”. La sofferenza, il dolore, l’ingiustizia esistono, sono connaturate alla vita, ma si può fare sempre qualcosa per mantenersi umani, o almeno civili.

Tolto il solo difetto di indulgere un po’ troppo talvolta nella descrizione di particolari affettivi e sentimentali che potrebbero rimanere taciuti, Haruf si dimostra autore considerevole.

Stefano S.