La novella dell’avventuriero – Arthur Schnitzler #Schnitzler

“.. il portone si chiudeva alle sue spalle e si ritrovò all’aperto… nella luce del sole mattutino, solo come non era stato mai, dietro di sè un mistero e uno anche più grande davanti a sè…”

 

La novella dell’evventuriero -Arthur Schnitzler
Traduttore: R. Carpinella Guarneri
Editore: Adelphi
Collana: Piccola biblioteca Adelphi

Ultimo scritto di Schnitzler, uscito postumo nel 1937, a sei anni dalla sua morte, considerato incompiuto.
Siamo nel ‘500, a Bergamo. Anselmo, di nobile famiglia, è rimasto orfano a causa della peste che ha colpito la città. Decide di lasciare alle spalle il suo passato e, pervaso da un sentimento di libertà, di intraprendere un viaggio, senza avere una meta precisa.
E le avventure che vivrà saranno travolgenti, con briganti, fanciulle innocenti, giocatori d’azzardo e ultracentenari che sanno predire la data di morte. In effetti, l’incontro con Geronte è il fulcro su cui si sviluppa l’intera novella: la morte sicura ma non databile che dà all’uomo la speranza di poter “costruire “un futuro, e la data certa che diventa in questa caso beffa del destino, al quale il protagonista stesso inevitabilmente si piegherà.
Il finale è aperto, “incompiuto”, appunto. Ma io sono quasi certa che Schnitzler avesse avuto modo di intervenire ulteriormente sul racconto, l’avrebbe lasciato così.
Si respira un ‘assenza di tempo e spazio in questa novella in linea con molti altri racconti di Schnitzler, che ha sempre prediletto lo spazio angusto della psiche e del cuore degli uomini, piuttosto che narrazioni di società che si trasformano.
Si respira l’eterna inadeguatezza dell’uomo di fronte al mistero della vita e delle sue forme.
E i sogni e desideri bruciano attraverso l’azione del destino.
E il bisogno di andare incontro ad un ignoto che incombe si trasforma in presunzione nell’anticiparlo.
Voglio citare un brano in cui la bellezza arriva a toccare il cuore:

“… certo, sapeva del mondo esistente di là da quelle mura, ma a un dipresso come gli uomini sanno delle infinità- per essi tuttavia inafferrabile –dell’universo, e non maggiore del loro era il senso di nostalgia che ne provava. Ma dal padre, al quale credeva come un maestro amatissimo, sapeva anche che lì, la sua vita era solo un assaggio, un primo sentore della vita misteriosa e vera della gente del mondo e che un giorno, forse non tanto lontano, il portone da cui era appena entrata con Anselmo, si sarebbe spalancato e sarebbe cominciata l’esistenza. Geronte conosceva il giorno perché era quello della sua morte – a lui altrettanto nota quanto l’ultima ora di chiunque – ma a lei, sua figlia, non l’aveva rivelato.”

Egle Spanò

Storia di un corpo – Daniel Pennac #DanielPennac #recensione

La nostra voce è la musica che fa il vento quando ci attraversa il corpo. (Be’, quando non esce da sotto.)

Spesso è difficile per un autore distaccarsi dai personaggi di una saga che ha avuto tanto successo e che è stata tanto amata ma qui Pennac ci è riuscito con risultati estremamente positivi.
Con uno stile più sobrio rispetto a quello utilizzato nella saga di Malaussene, ma sempre caratterizzato da un misto di delicata poesia e feroce ironia, l’autore riporta parte dei diari scritti lungo l’arco di una vita da un notabile della vita parigina, dalla pre-adolescenza, negli anni ’30, fino alla vecchiaia, negli anni ’10 del terzo millennio.


La cosa curiosa è che non si tratta di normali diari, l’autore di questi non era interessato a raccontare gli eventi e le emozioni provate durante le sue giornate. All’autore interessava analizzare le risposte del proprio corpo (ma occasionalmente anche degli altrui corpi) rispetto ai quotidiani stimoli che esso riceveva. Descrivere le reazioni del proprio corpo per poi descrivere la propria vita. Un diario che può essere il diario di chiunque con le goie, le paure, i dolori e la tristezza che suscita la malattia e la vecchiaia. Ovviamente, da questi racconti si viene a conoscere anche la storia di questo ragazzo, poi diventato adulto, sposato, i figli, i nipoti, gli amici, etc…

Pennac ci lascia in balìa di un racconto, di una storia, di un corpo che un giorno potrebbe essere il nostro, un poco di tristezza ma ci fornisce un efficace antidoto, che troviamo nelle ultime parole della più cara amica del protagonista, Fanché:
‘Non fare quella faccia, petardo, lo sai che prima o poi si finisce tutti nella maggioranza.” E anche: che senso dare ad una realtà che ha per tutti una data di scadenza?
La risposta è forse racchiusa nelle parole di tenerezza che il protagonista rivolge alla figlia, a cui il diario è affidato: “Oh! Mia Lison! La felicità senza alcun altro motivo che la felicità di esistere”.
Bello, consigliato a chi già apprezza Pennac ma anche a chi ancora non ha letto nulla di suo.

Massimo Arena