I ragazzi venuti dal Brasile – Ira Levin #IraLevin #recensione

Traduttore: A. Dell’Orto

Thriller avvincente, per lo stile pulito ma estremamente incisivo, per il ritmo serrato e per il fascino di una storia che non tramonta: è una perfetta lettura estiva, un giallo intelligente e non banale, anche abbastanza attuale, pur trattandosi di un libro del 1976. Avevo visto molti anni fa il film, con Gregory Peck e Lawrence Olivier, ma pur ricordando la trama non ho avuto problemi a godermelo. Fortunatamente, perchè anche chi di voi vorrà acquistare il libro, avrà un primo spoiler già dalla copertina, e poi dalla sovraccoperta. Il perchè di queste scelte ci sfugge, ma tant’è. Scrivo una breve recensione, senza spoiler, vado controcorrente!

“Il cacciatore di nazisti faceva sentire colpevole chiunque, sempre. Qualcuno aveva detto di lui – «Si porta appresso l’intera tragedia dei campi di concentramento appuntata alle falde della giacca. Ogni volta che vedi arrivare Liebermann senti quei milioni di ebrei levare gemiti dalla tomba». Era triste, ma vero.”

La Seconda Guerra Mondiale è finita da trent’anni; Josef Mengele, il famigerato medico dei lager nazisti celebre per i suoi crudeli esperimenti eugenetici ai danni di deportati e bambini, usati come cavie umane, ha trovato scampo in un paese sudamericano, dove vive indisturbato e con agio, grazie a enormi ricchezze che i gerarchi nazisti hanno assicurato all’estero ben prima della fine della guerra. Nelle prime ore di una sera del settembre del 1974, in un ristorante giapponese di San Paolo, un gruppo di ex militari nazisti si riunisce. A convocarli, Mengele in persona, per rivelare l’inizio di un’operazione misteriosa e segretissima, attraverso la quale egli assicura loro che si potrà far rinascere il Terzo Reich. A rischio della propria vita, un giovanotto idealista e impulsivo riesce ad allertare Yakov Lieberman, un leggendario cacciatore di nazisti scampato lui stesso ai lager, ma ormai piuttosto anziano e in condizioni economiche precarie (pennellato sulla reale figura di Simon Wiesenthal). Inizialmente, Lieberman non crede alla segnalazione. Ma la meccanica stessa della vicenda finisce per coinvolgerlo, alla ricerca di una spiegazione, in un crescendo di indizi raccolti, tradimenti, corse contro il tempo e anche qualche monito straordinariamente attuale: sui rischi della manipolazione genetica, sul fatto che l’abolizione di parole come “etica”, “morale” e “deontologia” permise agli scienziati nazionalsocialisti di compiere dei balzi enormi in avanti, questo a spese di quelle razze, o sottogenti, che Hitler, Himmler e soci consideravano alla stregua di insetti.

Ira Levin confeziona una storia solida e avvincente mettendo in gioco un eroe inusuale e un antieroe tanto ripugnante quanto carismatico. Lieberman, il cacciatore di nazisti, è un ebreo di mezza età, stanco, burbero, malato. Mengele è un geniale scenziato, votato anima e corpo al Nazismo, precursore della ricerca genetica e delle sperimentazioni estreme, bello, dal carattere apparentemente pacato e gentile, è in realtà il Male incarnato nella sua rappresentazione più affascinante e perversa. Lieberman è un eroe del popolo ebreo, ma non solo: è un eroe del genere umano, uscito imbarbarito dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. Questa sua condizione non è però politica o religiosa, è squisitamente laica. Il cacciatore di nazisti sa che il desiderio di vendetta, che appartiene a lui in prima persona, può generare gli stessi mostri a cui dà la caccia.

La loro lotta è l’eterna lotta del Bene contro il Male, dell’uomo che rifiuta di abbassarsi al livello disumano del suo opponente, che è il limite, ma anche il vanto perenne, di ogni reale democrazia illuminata.

Letto in una serata, molto molto consigliato.

«Ora voglio qualcosa di meglio della vendetta, e forse di altrettanto difficile da ottenere. Lo disse alla giovane donna della seconda fila: «Voglio il ricordo». Lo disse a tutti: «Il ricordo. È difficile ottenerlo, perché la vita continua; ogni anno ci sono nuovi orrori: un Vietnam, attività terroristiche nel Medio Oriente e in Irlanda, assassinii – e ogni anno», si fece forza, «l’orrore degli orrori, l’Olocausto, si allontana sempre più, si fa un tantino meno orribile. Ma i filosofi ci hanno ammoniti: se dimentichiamo il passato, siamo condannati a ripeterlo.»

Lorenza Inquisition

 

Tanti piccoli fuochi – Celeste Ng #romanzo #recensione #CelesteNg

A Shaker Heights non si parlava d’altro quell’estate: di come Isabelle, la figlia minore dei Richardson, avesse perso definitivamente la testa e dato fuoco alla casa […]. Poco dopo mezzogiorno, quel sabato di maggio, i clienti che spingevano i carrelli della spesa da Heinen’s avevano sentito i camion dei pompieri accendere le sirene e sfrecciare verso il laghetto delle anatre. A mezzogiorno e un quarto c’erano quattro mezzi rossi parcheggiati in una fila disordinata lungo Parkland Drive, dove le sei camere da letto di casa Richardson erano in fiamme, e chiunque nel raggio di un chilometro poteva vedere il fumo levarsi sopra gli alberi come una nube temporalesca densa e nera. Più avanti la gente avrebbe detto che i segnali c’erano fin dall’inizio: che Izzy era una piccola pazza, che c’era sempre stato qualcosa di sbagliato nella famiglia Richardson, che non appena avevano sentito le sirene quel mattino sapevano che era successo qualcosa di terribile.

Tanti piccoli fuochi – Celeste Ng
Bollati Boringhieri, 2018
Traduzione di Manuela Faimali

Un bel romanzone famigliare, americano, la storia di una famiglia “perfetta” che ovviamente perfetta non è, gli adolescenti, l’America bianca e wasp sedicente democratica che fa fatica ad includere chi ha avuto una vita meno liscia e regolare. Ma è soprattutto un romanzo sulle madri, sui tanti modi di esserlo – o di non esserlo, una vicenda al femminile che racconta una certa società borghese americana, democratica nel voto, ma profondamente conservatrice nell’anima. È  centrale il tema della maternità, delle gioie, dei dolori, delle fatiche e delle paure che ruotano attorno al ruolo di madre, ma parla anche di famiglia, di adolescenza, di scelte che cambiano la vita. Un po’ young adult, un po’ storia famigliare su sfondo sociale, va probabilmente letto per le riflessioni che suscita, anche se non è sempre facile identificarsi nella storia o nei personaggi.

Molto bello la prima metà, poi ha cominciato a darmi un po’ il senso del polpettone rosa – appunto – americano. Ho iniziato a vedere la serie che ci potrebbero fare, la mamma bionda con la faccia di Laura Dern… forse il suo difetto è quello di dire troppo, di raccontare tutto, come se il lettore non fosse capace di mettersi nei panni dei protagonisti, di leggere quello che non è scritto.
Comunque un bel romanzo da ombrellone, garbato ma pungente nel denunciare perbenismi e ipocrisie di certe vite borghesi solo apparentemente perfette.

Da piccola le avevano insegnato a rispettare le regole, a credere che il buon funzionamento del mondo dipendesse dalla loro osservanza, e lei le rispettava – e lo credeva.

Silvia Chierici