Le cure domestiche – Marilynne Robinson #MarilynneRobinson #Einaudi

“Mi venne in mente che la maggior parte delle persone nelle stazioni degli autobus sarebbero state degne di nota se non ce ne fossero state tante e tutte altrettanto degne di nota.”

Traduttore: D. Vezzoli
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli

Dall’autrice della trilogia formata da Gilead, Casa e Lila, il vincitore del PEN/Hemingway Award 1982, inserito dal «Guardian Unlimited» fra i cento piú grandi romanzi di tutti i tempi.

Primo romanzo di Marilynne Robinson, di molto precedente alla trilogia di Gilead. Pubblicato nel 1980, è uscito in Italia per la prima volta nel 1988, con il titolo – decisamente sviante – di Padrona di casa. Poi riedito da Einaudi.
Romanzo bellissimo.

Ruth e Lucille non hanno mai visto Fingerbone, la cittadina del Midwest che ha dato i natali alla loro mamma Helen, né le acque fonde e cupe del lago intorno a cui sorge. Ma quel lago, che in passato è stato teatro di un tragico e spettacolare disastro ferroviario, divenendo luogo di eterno riposo per molti abitanti della zona, pretende un grande tributo dalle loro giovani vite. Lo esige il giorno in cui Helen decide di riconsegnare le bambine alle loro origini e, dopo aver affrontato il lungo viaggio da Seattle, le deposita sul portico della casa avita con un pacco di biscotti da sgranocchiare per ingannare l’attesa; quindi, senza una parola di commiato né una riga di spiegazioni, risale in macchina e va a gettarsi nel lago.

“Io non riesco ad assaggiare una tazza d’acqua senza ricordare che l’occhio del lago è quello di mio nonno e che le acque pesanti, cieche e opprimenti del lago composero gli arti di mia madre, appesantirono i suoi indumenti, bloccarono il suo respiro e bloccarono la sua vista.”

Una delle due bambine, Ruth, è la voce narrante della loro storia. Racconta per sottrazione, ogni persona qui è destinata in qualche modo ascomparire, a non esserci, mentre la casa rimane l’unico punto di riferimento e di congiunzione di vite. La casa e l’alto terreno su cui è stata edificata rappresentano la continuità, l’appartenenza; sono la vita, l’attaccamento alla terra, la fedeltà ad una scelta.

Sulle rive del lago le bambine cresceranno in un isolamento quasi totale dai loro coetanei, in un rapporto felicemente simbiotico, pattinando sulle acque gelate, scorazzando per le rive quasi fino a perdersi nei gelidi e rarefatti paesaggi lacustri, lontane dai rumori della città, immerse nel silenzio della natura. Ma il lago è anche una presenza minacciosa, quando il gelo finisce e le piogge lo fanno tracimare nel paese, fino a invadere con le sue acque, così pregne di storie, le case di Fingerbone. Allora bisognerà ritrarsi a vivere nella mansarda lasciando che l’acqua impregni tutto e poi, piano piano riscenda. La casa, in cui le due sorelle vivono diventa il personaggio principale, una casa immersa e sommersa dalla natura, il fulcro della vita di una famiglia esclusa dalla civiltà. Ma c’è altro, le conseguenze dell’abbandono, della morte, dell’assenza.

“La memoria è il senso della perdita, e la perdita ci trascina appresso a sé.”

La cura delle due orfane negli anni passerà alle mani di una successione di parenti femminili, fino alle cure domestiche della zia Sylvie, sorella minore della loro madre, personaggio misterioso, affascinante e inquietante nello stesso tempo, disturbato, reduce da una vita di vagabondaggio, con un lungo capotto e scarpe e vestito leggero, racconterà alle due ragazzine storie infinite che hanno a che fare sempre con treni e stazioni.
Di fronte al modello evanescente e sradicato della zia, le due sorelle, fino a quel momento una sola anima scagliata nel mondo, devono interrogarsi sul senso dell’appartenenza e del ritorno, venire a patti con la solitudine, e scegliere la loro idea – reale, metaforica e universale – di casa. Separazione dolorosa e inevitabile dunque: Lucille sceglierà di scrollarsi di dosso il peso dei morti, della loro assenza, del ricordo, per cercare una forma di integrazione sociale, mentre Ruth, voce narrante del libro, si lascerà trascinare nel mondo di Sylvie, segnato dalla precarietà e da un progressivo sradicamento.

Romanzo di formazione, romanzo al femminile, romanzo sulla solitudine e il radicamento o il non radicamento. Romanzo che quando lo finisci vorresti ricominciarlo da capo perché ti pare di aver perso qualcosa tanto è ricco di riflessioni, di pensieri e di stati d’animo. Scrittura magistrale, poetica, affascinante, potente.

“Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata. Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di vederli.”

Pia Drovandi

“La fama italiana di Marilynne Robinson è legata in larga parte alla straordinaria trilogia composta da Gilead, Casa e Lila: tre romanzi strettamente interconnessi e pubblicati in un decennio esatto (dal 2004 al 2014), in un’esplosione creativa tdavvero sorprendente.

Se Gilead, premiato con il National Book Critics Circle Award e con il Pulitzer tra il 2004 e il 2005, ha segnato la definitiva affermazione di un’autrice che godeva già di un ampio e consolidato sostegno critico, e i due, successivi capitoli della trilogia hanno figurato entrambi tra i finalisti del National Book Award, pur non arrivando ad aggiudicarsi il premio, la fama di Robinson ha subito un’impennata ancor maggiore grazie al sorprendente endorsement di Barack Obama, il quale non si è limitato a segnalare Gilead tra i suoi libri preferiti, ma – caso pressoché senza precedenti – ha intervistato la scrittrice per la New York Review of Books”. Luca Briasco, Minimia et moralia

Le cure domestiche – Marilynne Robinson #recensione

Marilynne Robinson a quarant’anni suonati scrive questo romanzo d’esordio, che le spalanca la via della notorietà e del successo.
Una trama abbastanza semplice, due bambine alla soglia dell’adolescenza che restano sole, e dopo un periodo di assestamento, in cui, soffrendo, credono di aver trovato la loro strada e il loro modo di proseguire il difficile cammino, ecco che vengono affidate alla loro zia, Sylvie, che si rivela la vera protagonista della storia.
Una donna piena di mistero, eterea, ribelle, vagabonda, che vive col cappotto addosso, che parla sempre di treni e di autobus, che esce di casa senza dire niente, che riempie la casa di foglie secche, di cianfrusaglie, che fornisce una continua sensazione ed immagine di precarietà assoluta alle due bambine, sempre convinte di poter essere abbandonate di nuovo.

La precarietà è il tema dominante di questo libro.
Il paesaggio, la natura, gli oggetti, sono gli strumenti con cui l’autrice rende viva la precarietà.
Il lago è lo sfondo ideale di questa storia. Un lago che inghiotte corpi e vite e cose, un lago che è veicolo dell’immaginario, del sogno, dei ricordi del passato, un lago che, visto da due bambine, può rappresentare l’Oceano infinito, il mistero del mondo intero, il suo eterno mutare.

“Camminammo verso nord, con il lago sulla nostra destra. Se lo guardavamo, l’acqua sembrava allargarsi sulla metà del mondo. Le montagne, ingrigite e appiattite dalla distanza, sembravano i resti di una diga crollata, o il bordo sbrecciato di una pentola di ferro, sul punto di ebollizione, che distillava senza fine l’acqua trasformandola in luce”

Un lago che richiama il cambiamento, un lago che accoglie, si apre ma subito si ricompone, un lago che rappresenta la morte, che inghiotte un nonno e una madre e tutto un passato, un lago che riflette la luce e cambia anche l’immagine delle persone che vi si avvicinano.
Fingerbone, questa cittadina (irreale) del Midwest, si contrappone, o vuole contrapporsi, a questa precarietà, dovrebbe rappresentare l’ancoraggio alla realtà, alle origini di tutti, alle tradizioni, alla consuetudine, all’essere conservatori.
Ma tutto cambia. Il lago esonda, il lago si ritrae, il lago ghiaccia. Il lago mette in pericolo la stabilità, degli abitanti ma anche delle loro stesse abitazioni. Il paesaggio sterminato e invaso dalle acque, dal ghiaccio, dalla neve, dal fango, attacca la vita e la sopravvivenza dignitosa delle persone.

Così come Sylvie, col suo nomadismo innato, col suo camminare oltre le regole, mette in pericolo la conservazione delle idee e delle cose.
Sylvie, che rompe un equilibrio, rompe quel ghiaccio, che ha il coraggio e l’incoscienza di attraversare quel ponte sospeso sul lago, andando incontro all’avventura senza alcuna certezza di riuscita. Perchè tanto la morte è l’unica cosa certa, perché

“è meglio non avere niente, perché alla fine crolleranno anche le nostre ossa. E’ meglio non avere niente”

Il romanzo è questo, la lotta, meglio la scelta, tra adesione al formalismo, alla consuetudine, alla pura apparenza, spesso, e l’adesione alla precarietà delle cose, della vita stessa, la lotta tra chi vuole conservare una costruzione e chi invece vuole metterla in discussione, bruciarla, conservarla solo nel ricordo per poi prendere una strada tutta personale.
I ricordi, “per loro natura frammentari, isolati, e arbitrari come le visioni fugaci che si hanno di notte da una finestra illuminata”.
Sì, frammentari, arbitrari. Ma anche potentissimi, forti, in grado di condizionare le nostre esistenze.
“C’è così poco da ricordare di ciascuno, un aneddoto, una conversazione a tavola. Ma a ogni ricordo si ritorna più e più volte, e ogni parola, per quanto casuale, si inscrive nel cuore, nella speranza che il ricordo si attui un giorno, e diventi carne, e che i vagabondi trovino una strada verso casa, e che i morti, di cui sentiamo sempre la mancanza, passino finalmente attraverso la porta e ci accarezzino i capelli con affetto sognante e abituale, perché non avevano l’intenzione di farci attendere così a lungo”.

Un romanzo onirico, con descrizioni degli oggetti e della natura davvero spettacolari, commoventi, a tratti. Non il mio genere preferito, lo dico. Ma scritto davvero benissimo. Mi ha trasmesso una malinconia fortissima, ma soprattutto una tristezza e un dolore enormi. Pensare a quanto siano precari i rapporti, i sentimenti, le persone stesse, a quanto siamo più simili a sogni che alla realtà, è un qualcosa che, in questo momento della mia vita, mi procura vero dolore. Anche se qui si parla di rigenerazione, di focolare nuovo che nasce dalle ceneri del vecchio. E’ che mi resta difficile accettare che le persone siano veloce apparizione, che rappresentino un’immagine così fragile nel mio cuore e in quello degli altri.

Musica: Natural beauty, Neil Young
https://www.youtube.com/watch?v=-Y1IF8A9XN4

Carlo Mars