Vietnam in guerra. Dispacci dal fronte – John Steinbeck #JohnSteinbeck

Spinto dall’intento di farsi un’idea personale, dovuta all’esperienza diretta, Steinbeck affronta un viaggio di cinque mesi insieme alla moglie, per osservare la guerra nel Vietnam, e per conoscere quei luoghi dell’estremo Oriente con i propri occhi.

“Sai Alicia, c’è un aspetto in cui gli eserciti non sono mai cambiati sin dai tempi di Roma: non amano e non si fidano delle notizie. Se avessero la possibilità di scegliere, gli Alti Comandi dell’esercito si limiterebbero

ad annunciare le vittorie, a negare le sconfitte e niente di più. E solo grazie alla domanda dei civili che abbiamo qualche notizia.

Poi ci sono gli uomini di governo e i politici. Sono quelli in gara per ottenere qualcosa, o per non perdere quello che hanno, con la conseguenza che tendono a deformare la realtà, gentilmente, a proprio favore.

I mezzi di informazione normali si preoccupano soprattutto di vendere i giornali, e a meno che non possano procurarsi novità eccitanti o

violente, non pensano a fare opere di promozione.

Ma un poeta, per lo meno uno che non pensa al denaro, ha uno scopo solo: vedere, e comunicare ciò che vede nel modo più efficace possibile.”

Se inizialmente si dimostra a favore di quel conflitto da parte degli Usa, anche perché amico e estimatore dell’allora Presidente Lyndon Johnson, sul finire dei suoi resoconti inizia a rivelarsi un atteggiamento più dubbioso e critico, circa l’utilità del conflitto.

“Bene, temo che si preparino tempi duri. Questa guerra vietnamita non potrà mai essere giusta. Non si può giustificare l’invio di truppe nelle terre di un altro. E non è possibile non apprezzare l’uomo che difende la propria terra. Le vere ragioni di questa guerra non verranno mai a galla, e se venissero pochi se ne accorgerebbero. Se il Presidente non farà qualcosa di visibile a favore della pace, saranno sempre più numerosi gli Americani e gli Europei che gli rimprovereranno questo caos, soprattutto perché il governo che noi appoggiamo non potrebbe puzzare di più”.

Sotto forma di lettere il libro racconta l’esperienza sul campo, descrivendo le incursioni, gli armamenti, le tecniche belliche, l’esercito americano ma anche la popolazione del Sud Vietnam, la devastazione della guerra, la ferocia dei Vietcong, conditi dalla prosa pungente e a volte sarcastica di Steinbeck e dalle sue riflessioni sulle società occidentali e orientali.

Carla Putzu

John Steinbeck parte alla volta del Vietnam in guerra nel dicembre 1966 per rimanervi fino al maggio 1967. E’ l’inviato d’eccezione del “Newsday” e una volta giunto a destinazione annota nei suoi dispacci: «Non credo molto a ciò che ho letto dell’Estremo Oriente. Le cose io le conosco sempre vedendo, ascoltando, annusando, toccando. Non guarirò mai da questa curiosità esagitata. Mi sento ancora come quando da bambino andavo da Salinas a San Francisco, addirittura a cento miglia di distanza!». Animato da questo spirito romantico lo scrittore inizia a muoversi sul territorio da Sud a Nord con ogni mezzo, partecipando ad azioni militari, documentando la vita quotidiana con rara lucidità. «Questa guerra in Vietnam lascia molto confusi non solo i vecchi osservatori come me, anche quelli che a casa leggono e cercano di capire. E’ una guerra di sensi, senza fronti e senza retrovie. E dappertutto come un gas finissimo e onnipresente». Ma la riflessione centrale non può che essere quella relativa al senso di una guerra che sta lacerando la mitologia e l’anima stessa dell’America contemporanea. Se all’inizio l’intento è quello di celebrare il coraggio e le virtù dei soldati americani impegnati nel terreno melmoso di un conflitto feroce in cui vengono risucchiati giorno dopo giorno senza comprenderne la vera natura, poi il dubbio si insinua e alla fine Steinbeck non si sottrae a un ripensamento inaspettato: «Credimi, ti prego, se ti dico che se tornando in Vietnam potessi accorciare questa guerra anche solo di un’ora partirei con il primo volo, con un biglietto di sola andata». Libro di genere a cui l’Autore aderisce senza riserve, Vietnam in guerra è anche l’ultima opera di uno scrittore che incanta ancora per il connubio sorprendente di umanità e alta ispirazione letteraria.

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Il sale della terra – Jeanine Cummins #JeanineCummins #Feltrinelli

Il sale della Terra è un romanzo al centro di un caso letterario oltreoceano, una diatriba infuocata che coinvolge decine di scrittori messicani e statunitensi, e nel frattempo, tomo tomo cacchio cacchio, scala le classifiche mondiali, perchè, semplicemente, si legge veramente bene. Premetto che l’ho preso perchè me lo suggeriva Amazon, mi intrigava la trama, aveva una classifica di giudizi dei lettori accettabile, e l’ho cominciato. Non avevo idea di chi fosse la scrittrice, nè della famosa polemica in corso, e forse è stato meglio così: l’ho letto in un giorno e mezzo, e mi è piaciuto parecchio. Una volta finitolo ho aperto l’internet per leggere un po’ di recensioni, e ho appreso delle varie critiche e del vespaio di proteste suscitati dalla sua uscita, che sostanzialmente riguarda il fatto che l’autrice, bianca e americana, scrive un romanzo appropriandosi di una cultura non sua (quella messicana), ricevendo suon di dollaroni dalla casa editrice statunitense (vendendo addirittura i diritti cinematografici prima ancora della pubblicazione) perchè il romanzo è scritto a tavolino per piacere a un pubblico occidentale. Tralascio brevemente queste premesse per parlare del libro, prima che del caso letterario.

La storia è molto avvincente, e parte in modo tragico e spettacolare: una giovane libraia messicana e il suo bambino si salvano miracolosamente dal massacro della loro intera famiglia, riunita per la quincenera di una delle cuginette, da parte di un commando di narcos. Subito, con i corpi dei parenti ancora caldi, comincia la fuga: se si sono salvati, è un caso, e la fortuna, in questi momenti, si esaurisce rapidamente. Sanno di avere alle spalle un cartello il cui capo ha decretato la loro sentenza di morte, e l’unica via di fuga è verso il Nord, l’America.

Prende il via da qui un viaggio frenetico, che porta il lettore nel tragico mondo dell’immigrazione clandestina messicana, lungo la rotta dei disperati che dal Messico e dal Centro America si spingono a nord, sempre più su. Pagina dopo pagina, seguiamo i due protagonisti in una fuga dove continuamente si rischia la vita, lungo i binari dei treni merci che ogni anno portano migliaia di migranti fino al confine con gli Stati Uniti. Entriamo con loro nei rifugi tenuti in piedi dalla carità eroica dei volontari, ci facciamo strada tra poliziotti corrotti, sorveglianti conniventi, narcos psicotici, compagni di strada a volte violenti, allucinati, a volte traditori, spesso comunque molto umani e solidali.

Il sale della terra è un romanzo di finzione, costruito come un thriller, scritto sorprendentemente bene. È la storia di un inseguimento, ha un ritmo serrato che ti prende fin dal primo momento, ha due protagonisti verso i quali siamo molto empatici, una madre e un bambino.

Allora, perchè la diatriba? perchè Jeanine Cummins secondo diversi intellettuali di origine messicana ha prodotto un libro inaccurato e stereotipizzante nel descrivere il Messico e i messicani; la accusano di aver scritto una storia melodrammatica, pensando ai gusti americani, a cominciare dalla protagonista e suo figlio, che sono messicani sulla carta ma in effetti sembrano a tutti gli effetti due occidentali, oserei dire addirittura meglio: due statunitensi. Tutti e due parlano inglese, sono sani e ben nutriti, lei è una giovane signora laureata che gestiva una libreria ad Acapulco: hanno soldi perchè prima di fuggire riescono a prelevare tutti i soldi dal conto bancario, quindi rispetto alle migliaia di altri migranti che incrociano non sono mai veramente disperati.

Si critica poi il diritto (oltre alla capacità) di una scrittrice statunitense e bianca, quale è Cummins, di raccontare una storia di migranti messicani, ma soprattutto si accusa l’industria editoriale americana che ha promosso un libro come questo molto di più rispetto a romanzi sullo stesso tema scritti da autori messicani o centroamericani, o statunitensi ma messicani o centroamericani di origine.

Il vero problema non è tanto Il sale della terra, ma il fatto che questo romanzo abbia ottenuto molta più attenzione e riconoscimenti (l’anticipo da più di un milione di dollari, la vendita dei diritti cinematografici e l’attenzione di Oprah Winfrey) di molti altri libri sullo stesso tema che secondo i critici sarebbero scritti meglio e con maggiore preparazione. A essere criticato quindi è soprattutto il sistema editoriale statunitense, che favorirebbe gli autori bianchi, compresi tutti quegli scrittori che hanno detto cose entusiastiche del romanzo senza conoscere bene la letteratura messicana. Succede perché la maggior parte delle persone che lavorano nell’editoria sono bianche.

https://www.ilpost.it/2020/01/29/polemica-romanzo-jeanine-cummins-oprah-winfrey/

Io non ho onestamente le basi per prendere una posizione decisa, anche se oggettivamente non è un capolavoro tale di libro da far dimenticare tutto il resto. Mi sento di dire che mi è piaciuto molto, perchè sì, è un romanzo se vogliamo melodrammatico e certo ben costruito per piacere, che si legge come un libro di avventura, decisamente un po’ furbo in certe scelte autoriali. Però secondo me è anche un bel romanzo, con ingredienti di riflessione interessanti, e soprattutto ha uno stile mai sciatto nè banale. E’ un best seller, sì, ed è ovvio che Don Winslow che parla di cartelli messicani non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato, e non è nemmeno lo stesso sport. E’ ovvio e lapalissiano. Però secondo me la Cummins riesce a trasmettere con onestà la costante sensazione di pericolo che vivono i migranti, l’esposizione ripetuta a maltrattamenti e abusi (soprattutto verso delle donne giovani che viaggiano indifese alla mercè di bastardi zozzoni), l’opacità riguardo al percorso burocratico nel futuro che li aspetta, nonché la mancanza di qualsiasi supporto da parte delle autorità (messicane e statunitensi).

Detto questo, sto cercando in rete un po’ di titoli meno controversi sull’argomento, per fare ammenda. E’ anche vero che non sempre si legge per spolverarsi la coscienza o salvare il mondo o capire dove stiamo andando, a volte si vuole solamente che un libro stia con noi per qualche ora, magari facendoci riflettere un poco e niente di più, o indicandoci la strada, poi da lì magari approfondiamo, magari no.

Quindi, date tutte queste premesse e riflessioni, io lo consiglio.

“Questo cammino è solamente per quanti di voi non hanno scelta né altre possibilità ma solo violenza e miseria alle spalle. … Alcuni di voi cadranno dai treni. Molti rimarranno mutilati o feriti. Molti moriranno. Molti di voi verranno rapiti, torturati, venduti, sequestrati. Alcuni avranno la fortuna di sopravvivere a tutto questo e arriveranno al confine degli Estados Unidos, solo per avere il privilegio di morire da soli nel deserto”.

“Solo uno su tre di voi arriverà vivo a destinazione”.

Lorenza Inquisition