Samuel Riba si considera l’ultimo editore letterario e da quando è andato in pensione si sente alquanto abbattuto. In una Barcellona flagellata da temporali violentissimi, condannato a un presente di abulia, consuma le sue giornate tra labirintiche e divaganti ricerche in internet, a rileggere i libri amati e in surreali conversazioni con i due anziani genitori. Un giorno fa un sogno premonitore e apocalittico che gli indica chiaramente che la rivelazione passa per Dublino. Convince allora alcuni amici ad andare con lui al Bloomsday e a percorrere insieme il cuore stesso dell’Ulisse di James Joyce. Riba nasconde ai suoi compagni due questioni che lo ossessionano: sapere se esiste lo scrittore geniale che non ha saputo scoprire in vita e celebrare uno stravagante funerale dell’era della stampa, già agonizzante per l’imminenza di un mondo sedotto dalla follia dell’era digitale. Dublino sembra avere la chiave per la risoluzione di tutte le sue inquietudini. Nebbia e mistero. Fantasmi e uno humour sorprendente. Enrique Vila-Matas ritorna con un romanzo che fa la parodia dell’apocalittico e allo stesso tempo riflette sulla fine di un’epoca della letteratura.
“Le stesse capacità necessarie per scrivere, sono necessarie per leggere. Gli scrittori deludono i lettori, ma succede anche il contrario e i lettori deludono gli scrittori quando in loro cercano solo la conferma del fatto che il mondo è come lo vedono.”
Riba è un editore, anziano se così si può dire. Affronta varie crisi: quella che ha a che vedere con la sua attività lavorativa, quella dell’età che avanza, quella della ricerca fallita dell’Autore, quella del rapporto con la sua infanzia/vita/famiglia. Il suo è un lungo racconto grazie al quale si fa conoscere, nella sua immensa cultura e fragilità. Capita una svolta, a un certo punto. E ha a che vedere con Dublino e l’Ulisse. La svolta inglese, la chiama. Ha una moglie e la crisi riguarda anche loro, almeno nel modo in cui guardano l’uno all’altra, gli sguardi sui reciproci stili di vita. E c’è una promessa che verrà infranta, come in tutte le storie.
*Forse ha ragione Dublino. E può darsi, inoltre, che sia vero che ci sono nuclei di spazio e tempo collegati fra loro, nuclei in mezzo ai quali possono viaggiare i cosiddetti vivi e i cosidetti morti e in questo modo incontrarsi*
Forse hanno ragione Dublino, il capitolo VI dell’Ulisse di Joyce, il ramo più alto dell’albero di Beckett, il salotto di Auster, la New York di Manhattan (il film), la sedia a dondolo, il cimitero di Glasnevin, la pioggia torrenziale, tutto quel finire che è l’età, the Irish Sea, il gin con l’acqua, le librerie (gli scaffali pieni di libri), le ombre di Parigi, il silenzio di Lione.
Forse la carta stampata muore e con essa il sogno e prima di essa gli autori e prima ancora chi gli autori li legge. E se tutto muore forse niente muore o lo fa solo per un momento, quello necessario allo specchio per ricomporre l’immagine, rimettere assieme le rughe, ritrovare il bandolo dei colori.
Un libro denso di ironia, citazioni straordinarie, riflessioni alte e una fuga, da cosa lo si scopre un pezzo alla volta, una perla alla volta, una goccia di memoria alla volta.
Joyce è dappertutto. Il suo Ulisse è una geografia, mappa regioni e ragioni del cambiamento, dello stile, del sentire.
Godibilissimo, attraente, dal buon odore.
E foriero di ispirazioni, tantissime.
Andate a conoscere Riba: magari una sera o l’altra lo mollerete da solo al pub, ma fino a lì avrete avuto modo di scatenare la mente e il cuore in una danza maniaca e delicatissima, in quella sala che è il taciuto, quello che troppo spesso fingiamo di non avere fra le costole del cuore.
Rob Pulce Molteni