Murder Ballads – Micol Arianna Beltramini e Daniele Serra #MurderBallads

di Micol Arianna Beltramini (Autore) Daniele Serra (Illustratore)

Mondadori Oscar Ink

Le Murder Ballads, oltre ad essere il titolo di un album del 1996 di Nick Cave, sono delle ballate tradizionali, nate nel Medioevo e che, nonostante raccontino omicidi o comunque morti macabre, erano anche utilizzate come ninnananna.

A queste ballate si sono ispirati Micol Arianna Beltramini e Daniele Serra per la graphic novel che è un’antologia di 5 racconti che dai bambini perduti nel bosco, attraverso femminicidi, padri assassini e storie di brigantesse, ci conduce sino alla storia che ha ispirato Marinella di De André. Le storie vere o comunque verosimili, sono di quelle destinate a restare nella memoria, sia per l’argomento sia grazie alla capacità di Daniele Serra che, per quanto sangue scorra nelle pagine, riesce nell’impresa di creare poesia, sempre con un’attenzione particolare verso le vittime. E come tanti bambini si addormentavano cullati da storie di coetanei morti, si viene immancabilmente catturati da queste ballate grafiche.

Rosangela Usai

Mondadori Oscar Ink pubblica il volume a fumetti Murder Ballads, una antologia di racconti scritti da Micol Arianna Beltramini (Last Goodbye. Un tributo a Jeff Buckley) e disegnati da Daniele Serra (Seraphim’s Hellraiser Anthology, Fidati è amore).

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I due autori, con colori intensi e atmosfere suggestive, reinterpretano racconti narrati nelle cosiddette “murder ballad”, brani di un sottogenere della ballata basati su fatti di cronaca particolarmente cruenti, che restano impressi nella memoria collettiva anche grazie al loro adattamento musicale. Nella musica contemporanea un esempio del genere sta nell’album Murder Ballads di Nick Cave & The Bad Seeds, noto in particolare per la canzone Where The Wild Roses Grow, interpretata insieme a Kylie Minogue.

La scatola dei bottoni di Gwendy – Stephen King & Richard Chizmar #StephenKing

“La gente è curiosa. Quando vede una levetta, vuole abbassarla. E quando vede un bottone, vuole schiacciarlo”.

Traduttore: G. Arduino
Collana: Pandora

Stephen King scrive a quattro marce: i capolavori, i molto buoni, i libri meh, e tutto il resto. Scrive anche tanto, e da cinquant’anni, quindi non è che si sta qui a giudicarlo, lo sapete. Comunque, Gwendy e la sua scatola sono in una categoria a parte, diciamo proprio in un’altra corsia, abbastanza nuova: sono libri pubblicati con il suo nome, che hanno poco a che vedere con lui e soprattutto con la sua scrittura. Tuttavia il nome del Re è un marchio che vende, e le case editorre che devono fare, mica possono buttare in der cesso occasioni così, con questi tempi grami che corrono.

Però rimane che fessi noi lettori non siamo, o dobbiamo cercare di non esserlo, e quindi prima di comprare questo libro, 18 neuro (DICIOTTO) variabili a seconda di sconti vari, leggetevi questo paio di informazioni che mi pregio di fornirvi.

Questo non è un romanzo, è un racconto, neanche lungo, e scritto pure in grosso (cfr. par. “e le case editorre che devono fare“), 240 pagine di cui 93 bianche o contenenti disegni e altre 49 piene per metà o meno. La genesi dell’opera è abbastanza semplice: Stephen King ha iniziato a scrivere un racconto, arrivando quasi alla fine. Poi ha perso interesse e stimolo per la storia, come a volte gli succede e, riferisce, dopo un po’ di tempo ha spedito il malloppo all’amico Richard Chizmar, dicendogli Te lo regalo, fanne ciò che vuoi. Chizmar è uno scrittore, ma è anche un editore; e che deve fare un editore che si ritrova un regalo così in grembo, non la abbiamo già esaminata questa questione? essù. E dunque Chizmar ha rabberciato un finale, sistemato due paragrafi e aggiunto qualche illustrazione, per poi boombastare il libro al grido di Il nuovo romanzo di King ambientato a Castle Rock dopo vent’anni di assenza.

Sigh.

La storia, in sè e per sè, si colloca un po’ nei libri meh (e vi ho fatto anche la rima): non è proprio brutta, non è horror, non fa tanta paura (anzi, quasi niente), non sviscera grandi temi: è solo il racconto della vita di una ragazza qualsiasi, di come entra in possesso della famosa scatola dei bottoni (che non è una scatola piena di bottoni tipo quelle di latta della nonna, io mi pensavo una roba così ma no, i bottoni sono sulla scatola) che conserverà per molta parte della propria esistenza. Ci sono segreti che riguardano questa scatola, ovviamente, e anche sull’uomo nero che la porta, e questi segreti, e penso sia questa la parte del libro in cui il Re vive e prospera, sono inquietanti per una serie di potenzialità di penzieri opere omissioni che hanno un loro perchè. Questo però è più o meno il picco del libro, personaggi scritti con il pennarellone dei bambini con i ditoni grossi, storia che va e viene, dialoghi non pervenuti. Vabbè.

La copertina è bellina veramente, sul serio.

E comunque poi non ha neanche avuto torto, l’editore. Ci sono un sacco di opinioni entusiaste dei fan, quattro stelle di qua, MILLE STELLE dell’ingegner Cane di là, il libro vende, e quindi, che ve lo dico a fare.

Consigliato a chi non ha problemi di spese e vuole leggere, ma soprattutto collezionare, un King, sempre e comunque; sconsigliato a chi cerca chissà quale opera o vuole una storia insuperabile, ancora meno a chi ritiene che un simile prezzo valga solo per libri veri e propri. Giudizio critico sul libro, traslato da una delle frasi quasi finali del libro:

“Non si tratta del classico lieto fine, ma accontentiamoci”.

Alè. Già ve lo dice King, e ve lo dico pur io.

Lorenza Inquisition

Ma veramente ci sono voluti due scrittori per ‘sta roba? (utente amazon)