Il piccolo campo – Erskine Caldwell #ErskineCaldwell #recensione

Se però i poveri bianchi di Steinbeck erano essenzialmente persone nobili e forti che lottavano per sopravvivere in tempi difficili, i sudisti gotici di Caldwell erano avidi, sessuomani e nobili quanto può esserlo un’erezione da Viagra. E avevano la stessa possibilità di redimersi di un maiale che sguazzi nel suo truogolo.

Joe Lansdale

Il piccolo campo -Erskine Caldwell

Traduttore: L. Briasco
Editore: Fazi
Collana: Le strade

Quale aggettivo è più appropriato per descrivere questo libro? Memorabile. Doloroso. Raro. Fastidioso. Indimenticabile. Disturbante.
Vanno bene tutti, sono tutti corretti. Un libro magistrale, uno spaccato sull’America degli anni Trenta che sembra contenere nelle sue pagine tracce del nostro presente.

L’ho letto qualche settimana fa e ancora sento la terra che mi brucia in gola, come se l’avessi respirata.
È la terra che Ty Ty e i suoi figli scavano da quindici anni per trovare l’oro. La terra che poteva essere coltivata a cotone e che invece è diventata buche immense e mucchi di terriccio e sabbia. Sotto, forse, l’oro. L’America della grande depressione. L’America che fa la fame, lotta per sopravvivere e intanto sogna la ricchezza.

Erskine Caldwell finì in galera per aver scritto e pubblicato questo libro. Ci finì per le scene di sesso, esplicite e decisamente sconvolgenti per l’America degli anni Trenta. Il sesso è esibito, esplicito nelle parole e nei gesti, fino ai limiti di azioni e di un voyerismo incestuoso.

“Ci hanno giocato un brutto tiro” dice il patriarca Ty Ty, “Dio ci ha messi in un corpo da animali e ha cercato di farci comportare da esseri umani. È da qui che nascono tutti i problemi.”.
L’istinto è uno dei protagonisti di questo romanzo. L’istinto del maschio più forte che si prenderà la femmina che vuole, l’istinto della femmina più bella consapevole del suo potere sui maschi. Come succede in un branco, la lotta per il predominio. Cos’altro è la famiglia se non un branco? E per i Walden tutto si risolve in famiglia.

Caldwell in galera per le scene di sesso, non certo per la caccia al “negro” in piena notte o per i “negri” schiavizzati e ridotti alla fame. È l’America puritana e schiavista degli anni Trenta, quella nella quale si può dire “Andiamo, voglio catturare quel negro prima che faccia notte” con la stessa serena disinvoltura con la quale noi potremmo dire “Vado a correre prima di cena”. Un albino, in verità, personaggio magico che si dice sia in grado di trovare un filone d’oro. Perché l’oro si troverà, dice il capo famiglia. La sua non è una soltanto una convinzione, è una fede indiscutibile diventata ossessione.

Usa un linguaggio semplice, Caldwell, poco descrittivo. Le descrizioni le fanno i dialoghi, lo scambio di battute. Fino ad un certo punto si sorride con feroce ironia alle spalle del povero Pluto, innamorato della bella Darling Jill e da lei trattato come un grottesco zerbino. Tutti ridono di Pluto, anche il lettore. È lui l’elemento comico della compagnia. Si ride amaro, si ride in maniera feroce. Come quando Darling Jill gli spiega candidamente che un giorno o l’altro lo sposerà…quando qualcun altro l’avrà messa incinta e le servirà un marito che salvi la situazione. Sorride Pluto, che non ha capito, ride Darling Jill che ha detto la verità, ridono gli altri membri della famiglia che assistono alla scena.

Ad un certo punto le amare risate si dissolvono, non si sentono più. Rimane la realtà. È la realtà è fatta di lacrime, di sangue, di odore di polvere da sparo, di odore di terra. Di lotta per non morire di fame, di lotta per la supremazia e di lotta per rivendicare i propri diritti.
Si può morire per tutti e tre i motivi.

Grazie a chi ne ha parlato qui nel gruppo, tempo fa.

Anna LittleMax Massimino

“Il suo capolavoro… si lascia accostare ai vecchi pagani d’Italia e Francia, Boccaccio, Rabelais, Lasca, Machiavelli. Ha con essi in comune la grande possibilità di far suonare insieme corde comiche e corde tragiche. Ma nel tono è ancora meno realista di quelli, oltre che dei suoi contemporanei (uno dei cinque o sei maggiori scrittori d’america). C’è il contrappunto dei blues neri nella sua pagina.”

Elio Vittorini

Dorothea Lange – The Great Depression #DorotheaLange #Fotografia

Per la sfida alla voce “Un libro fotografico” ho scelto, complice anche la recente rilettura de La Valle Dell’Eden, una raccolta di Dorothea Lange sulla Grande Depressione.

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La Lange si era stabilita a San Francisco, dove aveva cominciato a documentare con grande continuità le condizioni dei senza tetto e le file dei disoccupati nella città.
Nascevano i primi reportage documentaristici, la fotografia entrava in un nuova epoca: il fotogiornalismo. Ci si accorgeva dell’importanza che i Reportage potevano avere nei confronti delle grandi questioni sociali, non solo da un punto di vista storico. Si cominciava a capire che l’impatto emotivo di una serie di fotografie sul pubblico lo obbligava a reagire, a prendere una posizione morale ma anche pratica di fronte a quello che stava accadendo: in altre parole, la fotografia diventava uno strumento politico di straordinaria efficacia.

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La Lange, insieme ad altri grandissimi nomi della fotografia, collaborò intensamente a questo sviluppo, ritraendo contadini e lavoratori migranti che a causa della crisi in Borsa del 1929 e dei disastri ecologici del Dust Bowl, dopo aver perso le case per i debiti e i terreni per la siccità, abbandonavano le Grandi Pianure e si riversavano a centinaia di migliaia sulla California, con le sue terre ancora fertili. Erano migranti americani in America, si spostavano su carri e macchine se avevano avuto la fortuna di mantenerle, altrimenti a piedi, tutti, padre, madre e bambini, a volte qualche nonno, vestiti di stracci, affamati, disperati. Seguivano il lavoro stagionale delle colture, si accampavano in squallidi agglomerati di casupole di cartone e legna, e qualche tenda.

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La foto icona della Lange, e anche di questo intero periodo storico, è l’immagine della Migrant Mother, misera raccoglitrice di piselli in California, al secolo Florence Owens Thompson. Celebre suo malgrado, perché la Lange non chiese mai il suo nome, né la sua storia, e per quarant’anni quel volto stanco e scavato dalla miseria fu solo una «donna di trentadue anni, madre di sette figli, raccoglitrice di piselli». Addirittura in realtà quella foto non avrebbe dovuto esser venduta, né pubblicata, perché di proprietà del governo e quindi di pubblico dominio; e invece gli scatti della Lange furono inviati al San Francisco News e immediatamente dati alle stampe, senza fruttare alcuna royalty alla fotografa, ma garantendole la fama imperitura. D’altronde l’effetto di quelle foto, accostato a titoli provocatori dei principali giornali dell’epoca (Cenciosi, affamati, falliti: i raccoglitori vivono nello squallore, o Cosa significa New Deal per questa madre e i suoi bambini?) fu immediato. Al campo arrivarono generi alimentari e vestiti, dottori e medicinali: la Migrant Mother aveva cominciato a manifestare il suo potere comunicativo.

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Nonostante sia un libro fotografico per cui in effetti non c’è quasi niente da leggere, ci ho impiegato quasi una settimana a finirlo perchè quelle foto sono drammatiche, mi mettevano addosso una certa angoscia; soprattutto i nonni, i vecchi, non riesco proprio a reggerli, nel loro essere indifesi di fronte al destino bastardo dopo che hai già dato per una vita. Nei bambini invece a volte c’è una speranza, un accenno di sorriso, una luce negli occhi che ancora non si è spenta. Non in tutti però: ci sono foto di alcuni ragazzini più grandi per i quali non ho trovato definizione migliore di questa frase di Bruce: ti guardano con gli occhi di una persona che odia per il solo fatto di essere nata.

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Lorenza Inquisition