L’Opera Struggente di un Formidabile Genio – Dave Eggers #DaveEggers #recensione

L’opera struggente di un formidabile genio – Di Dave Eggers

Editore: A. Mondadori (Piccola Biblioteca Oscar)

«Tutti ci divoriamo l’un l’altro, costantemente, ogni giorno.»
«No.»
«E invece sì. È quello che facciamo in quanto esseri umani.»

Questo è un libro difficile da raccontare, a volte difficile da leggere, a tratti irresistibile, in genere esasperante, come il protagonista. E’ atipico già in fase di strutturazione: si apre con una prefazione lunghissima, che introduce il contenuto del libro e lo giudica, analizzandone le parti da saltare senza rimorsi; seguono un indice dei capitoli con relativi temi affrontati (semplificati da un elenco di parole-chiave), una Guida incompleta ai simboli e alle metafore, e infine una seconda prefazione, introdotta nelle edizioni successive, intitolata Sbagli che sapevamo di fare, con puntualizzazioni sull’opera dopo la prima pubblicazione. E poi c’è il modo di raccontare la storia, ironico, sopra le righe, assurdo e tendenzialmente indigesto ai più, immagino. E’ un’opera giovane, come l’autore, al suo primo lavoro quando la scrisse: e c’è dentro tutto l’animo di quel trentenne che racconta il proprio io ventiduenne, e la vita assurda e i pensieri folli che lo fecero diventare grande nel corso di pochi terribili splendidi anni.

Il libro è autobiografico, ma non è precisamente un diario di avvenimenti; si apre nel ventiduesimo anno di età di Dave, quando entrambi i suoi genitori, tragicamente, muoiono di malattia a distanza di poche settimane. Mentre il fratello maggiore (“E’ un repubblicano“) ha già un’esistenza autonoma in un’altra città, Dave e la sorella Beth rimangono le uniche figure di riferimento per il figlio più piccolo Christopher, detto Toph, di otto anni. I fratelli decidono di trasferirsi in California seguendo la sorella che vuole finire di laurearsi, e iniziano una nuova vita fatta non di tristezza e struggimenti come ci si potrebbe aspettare dalla neo condizione di orfani, ma tutto sommato serena. La sorella interviene solo per rare importanti decisioni, e il fratello maggiore, lontano, è tendenzialmente interpellato solo per questioni finanziarie. Grazie allo spirito egocentrico, indomito e decisamente fuori dal comune di Dave, sul quale ricade quasi in esclusiva il compito di educare il fratellino, nonostante le varie difficoltà burocratiche e di vario genere “adulto”, la coppia Dave-Toph prospera. I due si imbarcano in un’esistenza caotica e sopra le righe, politicamente scorretta e potenzialmente nevrotica, generalmente randagia, mentre tentano disperatamente di rimanere nei ranghi del socialmente accettabile, soprattutto per non fare crescere il giovane Toph come un disadattato cronico, o peggio, un serial killer. Dave e Toph vivono alla giornata in un interscambio continuo di ruoli, ognuno diviene potenzialmente mentore dell’altro, e poi padre, madre, e a volte lui stesso figlio, tra traslochi e iscrizioni a scuola, provini per MTV e incapacità cronica di organizzarsi per essere in orario, in un ubriacante senso di libertà dovuto al fatto di dover ricostruire una vita senza punti di riferimento, e al tempo stesso sotto la paranoica sensazione di essere individui segnati dalla malasorte passata e quindi predestinati, per una sorta di effetto karma, a una sorta di invincibilità nell’immediato futuro perchè “abbiamo già dato abbastanza, per ora.”

Il centro di tutto il racconto è comunque Dave, fanfarone ed egomaniaco, o forse solo molto giovane, il suo stile ironico caratterizzato da slanci viscerali di rabbia e risate, nella sua goffaggine da giovane adulto con cui affronta il mondo, nella miriade di parole che riversa addosso al lettore mentre parte con l’ennesimo spiegone sulla vita, l’amore, il sesso, la società. Dave è il protagonista assoluto, circondato da quelle che sembrano comparse più che attori non protagonisti, e in effetti la caratterizzazione di tutti gli altri personaggi – e ce n’è una miriade- è quasi assente. Rimangono una marea di nomi e situazioni, tutte dominate da lui, dalla sua parlantina, dai suoi voli di fantasia, dalle sue storie per metà inventate e per metà senza senso.

È stato detto, direi non a torto, che questo libro è troppo tutto: uno zibaldone di flusso di coscienza di un protagonista nevrotico e ossessivo che ha un ego ABnormale e in più somatizza a causa dei lutti subiti, e va avanti per pagine e pagine di ansia di vivere, paura di morire, desiderio di riconciliare il passato e di esorcizzare i ricordi dei morti. Penso che sia vero, è troppo, ci sono punti in cui è solo logorroico e ci sono momenti pure di noia esasperata. Eppure. Eppure ha uno stile al quale non si può far altro che inchinarsi, ti intossica, ti macina e ti risputa fuori, e in genere ne sei grato, perchè davvero ti rendi conto di essere di fronte a un formidabile genio, e stai pure muto due volte se pensi che era il suo primo romanzo. E a parte lo stile, ha alcune pagine di vero lirismo, davvero belle e intense, di grande ispirazione: quando gioca a frisbee con il fratellino o quando è alle prese con l’amico perenne aspirante suicida John, o l’inarrivabile dolcezza dell’immaginario funerale della madre rispetto a quello vero; o un certo riappropriarsi della memoria e dei ricordi dei propri genitori, una volta filtrato il dolore insopportabile della perdita.

Personalmente, mi è piaciuto tanto, anche se non posso dire di averlo amato. E’ un buon libro con una scrittura magnifica, puro talento e stupore, nel campo delle opere alla DFW che infatti lo esaltava, prolisso, verboso, intelligente, tenero, autoreferenziale e masturbatorio. E’ il tipo di libro che una volta iniziato lascia due sole scelte: o ci si abbandona senza rimpianti al flusso, o si va a fondo ammazzandosi di noia e critica, a volte andandosene e mollandolo a metà. Ma per me, vale la pena finirlo.

Lorenza Inquisition

Shotgun lovesongs – Nickolas Butler #recensione #NickolasButler

Ero, e così era lui, in quello spazio a metà dei vent’anni, quando un numero sufficiente di amici o compagni di classe aveva già trovato qualche forma di successo, abbastanza da incombere su tutti noi che non c’eravamo riusciti.

Un romanzo piacevole. Che scorre via veloce, fresco come un ruscello del Wisconsin ( ci sarà un ruscello fresco, lì, spero, altrimenti la metafora va a farsi un barbecue).
L’ho letto, ma non ho scritto niente, subito. E col passare dei giorni ci ho ripensato su molto, pensato e ripensato. E ho perso un bel po’ della “magia” che credevo di averci trovato.
Ripeto, lettura piacevole, e comunque questo non è poco.
Una storia piena di testosterone, in linea di massima, dato che abbiamo in primo piano una storia di amicizia maschile.
Abbiamo birre, abbiamo bar, abbiamo alcol, abbiamo pacche sulle spalle, mucche da mungere, pick up sgommanti, abbiamo camicie di flanella a quadrettoni, abbiamo barbecue, abbiamo coyote e abbiamo neve, tanta, quando occorre.
Poi ci sono le parti romantiche, abbiamo i tramonti, le albe, le rocce e le erbe con tutto il campionario di colori possibili e oltre i possibili.
Abbiamo sentimenti veri, forti, indistruttibili.
C’è gente messa alla prova dalla vita, gente che resta in paese e gente che invece sente di soffocare e parte. Ma non si spezza il filo dell’amicizia, mai. Ci sono scossoni forti, ma non si crolla.
Persone che vivono, lottano, cercano la felicità, provano, riescono e sbagliano, come tutti.
Il tutto in quest’atmosfera che sa di magico incantesimo.
Mi piace l’espediente narrativo che fa parlare tutti i personaggi, uno alla volta.
Ti affezioni a queste persone, le senti vicine.
Ma ecco che questo espediente segna il suo limite quando tutte queste voci finiscono con avere una sola tonalità. Non c’è stacco vero tra nessuno dei personaggi. Tutti questi amici parlano con la stessa voce, con lo stesso timbro. Nemmeno il personaggio che dovrebbe avere una voce diversa, per questioni di salute mentale, alla fine si distingue dagli altri.
E questo è un limite grosso, per una storia che si definisce autentica.
C’è un confine sottilissimo tra il reale/genuino/romantico e il melenso.
E questo romanzo lo oltrepassa più volte, per me.
Sì, ti fa venir voglia, probabilmente, di amici così, di avere un posto sicuro dove stare o dove tornare, di silenzi che contano e di notti piene di stelle, e di musica buona, avvolgente come una sciarpa calda. E penso che qualche lettore le abbia, queste cose, queste amicizie.
Ma mi sa che è troppo, tutto troppo.
E’ troppo pacifico. Non esiste un torto possibile che porti alla rottura di un rapporto, qui.
Qui c’è gente che predica bene e razzola diversamente, non dico male eh, ma diversamente. Ma nulla cambia. Non c’è lo strappo che ti aspetti. Troppi matrimoni, troppo amore, troppi tradimenti, troppi cuori spezzati, troppe riconciliazioni, troppa birra, per potere rendere credibile uno status quo che si rinnova.
C’è pure troppo Bob Dylan, nominato una volta, ma è troppo lo stesso, in questo contesto sembra un nome buttato lì facendo l’occhiolino…
Questo romanzo “scalda”, han detto tutti. Ma a furia di star troppo vicino a un camino, si va a bruciarsi, dopo essersi scaldati per bene.
Dove sono andati a finire, i perdenti? Qualcuno dirà: ma perché, non può andare tutto bene, finire bene, che male c’è? Nessuno, ovviamente. Ma a volte non è che basti prendere un gettone e far risuonare una canzone in un vecchio juke box, per mettere a posto tutto quello che di storto si è andato accumulando negli anni, o per farti sentire vicino qualcuno che hai sempre detestato o l’amico che ti ha tradito.
C’è grosso rischio di atmosfera da soap opera, per me.
Sembra scritto per finire in una sala cinematografica.
Ecco perché appare più furbo che autenticamente genuino (e in fondo nemmeno la storia in sè, è originale, dato che lo spunto lo fornisce una storia vera).
Fino a metà, il libro si regge e si legge bene, o discretamente bene.
Poi diventa prevedibile, fino ad un finale per me quantomeno affrettato, se non ampiamente deludente.
Sì, lo so, sputatemi pure. Ma questo è.

Musica: My My, Hey Hey (Out Of The Blue), Neil Young
https://www.youtube.com/watch?v=cawk2cMTnGo

Carlo Mars