Diario 1941 1943 – Etty Hillesum #olocausto #recensione #EttyHillesum

DIARIO – Etty Hillesum

1941-1942 EDIZIONE INTEGRALE
Traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone
La collana dei casi, Adelphi

Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppur provare ad esprimerlo in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio. Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua: “riposare in se stessi”, e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa.

Qualche giorno fa, qui su Facebook, mi sono imbattuta in un’immagine raccapricciante. Uno di quei fotomontaggi che vanno tanto di moda. Si vede un tizio con un ghigno feroce che domanda “Nessuno ha un’idea per risolvere la questione dei migranti?” e sotto si vede una foto di Hitler: ha in viso un sorrisetto sardonico e un dito alzato come a dire “Ce l’ho io un’idea…”.
Ancora non riesco a capacitarmi di aver potuto vedere un’immagine così.
In questi giorni sto leggendo questo libro, il diario di una ragazza ebrea di grandissima forza interiore e onestà intellettuale. Nelle pagine che sto leggendo ora, Etty è in attesa della lettera che annuncerà la sua deportazione nei campi di concentramento. Una donna straordinaria che con le sue parole insegna come nessuna ingiustizia può togliere all’uomo la sua dignità più profonda. Incredibile come abbia potuto, nonostante la fine sempre più prossima, credere ancora nella vita stessa e nell’umanità. Leggo una pagina al giorno, questo è un libro molto difficile da sopportare. Molto, molto difficile da sopportare. Straordinario e dolorosissimo.
La verità è che noi non sappiamo niente, non conosciamo niente, non ricordiamo niente, non impariamo niente. Facciamo paura.

Anna Massimino

“Di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra se le cose sono così come sono, ora.”

Risvolto

All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa e passionale. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. È ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto ai tanti che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di transito da cui sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta persino in quel «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante». Se la tecnica nazista consisteva innanzitutto nel provocare l’avvilimento fisico e psichico delle vittime, si può dire che su Etty abbia provocato l’effetto contrario. A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura, senza incrinature. Anche nel pieno dell’orrore, riesce a respingere ogni atomo di odio, perché renderebbe il mondo ancor più «inospitale». La disposizione che ha Etty ad amare è invincibile. Sul diario aveva annotato: «“Temprato”: distinguerlo da “indurito”». E proprio la sua vita sta a mostrare quella differenza.

Le lettere mai arrivate – Mauricio Rosencof #recensione

“L’iscrizione forgiata in ferro, papà, è più piccola di come la immaginavo;
un cancello con le sbarre, come quello di qualunque casa di campagna”.

“Le lettere mai arrivate” (Las cartas que no llegaron), uscito nel 2000 e tradotto e pubblicato pochi mesi fa dalla Nova Delphi Libri, è un’opera dello scrittore e poeta uruguaiano Mauricio Rosencof, dove l’autore, ex guerrigliero nato da genitori ebrei polacchi, per resistere alla dura prigionia impostagli dalla dittatura militare (1973-1984), scrive una lunga serie di lettere al padre, per mantenere vivi certi ricordi, per cercare di sopravvivere in una condizione così drammatica.
La chiave di questo libro è la parola scritta. Attesa dal padre dell’autore sotto forma di lettere, quando lui era bambino, dei parenti rimasti in Polonia che scrivevano della paura della deportazione. Ingannatrice come quelle poste all’ingresso di Auschwitz: “Il lavoro rende liberi”. O qualcosa che aiuta a ritrovare le radici, salva i sogni e la speranza, quando è l’autore che, imprigionato dal regime dittatoriale uruguayano, ricorda suo padre che aspettava quelle lettere quarant’anni prima, sua madre che non sapeva leggere ma sapeva sempre far domande.
E’ la parola che apre le porte a una realtà immaginata ma non per questo meno vera.
“Sogno una tazza di tè, caldo, fumante, ambrato, che ti dà tepore alle mani e ti scalda il ventre, sorso dopo sorso… Perchè la fantasia, sai, è l’unica caratteristica umana non soggetta alla meschinità del reale”.
Lo scrive il nonno al padre dell’autore in viaggio verso Auschwitz.
Ed infine parola che è memoria per resistere alla morte. Perchè attraverso i ricordi, quando il presente è così terribile che non si può pensare a un futuro, si vive.
Un libro che consiglio per la sua rara compostezza emotiva.

“E oggi sono qui, babbo , e faccio il giro del mondo con tre passi corti, dietro front, tre passi corti, e di questo non te ne parlo. Perchè dovrei? Ma il mio mondo è questo di due metri per uno, senza luce, senza libro, senza volto, senza sole, senza acqua, senza senza e ti scrivo”.

Egle Spanò