Nomadland. Un racconto d’inchiesta – Jessica Bruder #Nomadland @EdizioniClichy #JessicaBruder

“Tutta la mia vita è stata alta e bassi, e il momento più felice è quello in cui possiedo pochissimo… Le persone vanno e vengono nella tua vita. Non riesci a trattenerle per sempre.”

Di questo libro si è parlato molto, anche nel nostro gruppo, e sempre con toni di apprezzamento; vorrei provare a fare un’analisi rispetto al film omonimo, che è un bel film, ma che per molti versi non c’entra niente con lo scritto da cui è tratto, ed è un peccato.

Nomadland è un gran bel libro, un reportage giornalistico vivo e vero, che sembra quasi un romanzo. Jessica Bruder ha ha preparato per tre anni questa inchiesta, viaggiando in camper e lavorando con gli anziani protagonisti, e ci racconta di come ogni giorno in America, il Paese più ricco del mondo, sempre più persone debbano scegliere tra pagare l’affitto o le bollette o le spese mediche, o mettere il cibo in tavola. Di fronte a questo dilemma impossibile, molti abbandonano la vita sedentaria in una casa, che ha il peso economico infinito di bollette, riparazioni, spesso di una seconda ipoteca o ancora mutuo o affitto, per mettersi in viaggio: caricano poche cose essenziali in un furgone o un camper, lasciano un po’ di oggetti e ricordi che non vogliono ancora abbandonare del tutto in un deposito o presso qualche famigliare, e il resto lo vendono. Sono gli invisibili della società americana: centinaia, migliaia di uomini e donne, quasi mai giovani anzi decisamente anziani, che per sopravvivere all’America stessa si mettono in marcia verso un destino ignoto fatto di lavoro intermittente, duro e stagionale (lavoratori agricoli, operai presso i magazzini di Amazon, a volte se si è fortunati qualche assunzione come custode). In questo spietato mondo capitalistico americano in cui basta un ricovero in ospedale al momento sbagliato per mandare in fumo i risparmi di una vita, in cui la previdenza sociale è praticamente inesistente e il peso dei debiti spinge molti alla disperazione, donne e uomini in un’età da pensione che hanno raggiunto lavorando onestamente tutta una vita, devono migrare da un lato all’altro del Paese: è l’America nomade, “fuori dai radar”. Li chiamano workcamper, moderni viaggiatori mobili che accettano lavori temporanei in cambio di un posto per roulotte gratuito. Persone che vivono ai margini, lontane dai cliché, mai del tutto stanziali, fuori dai censimenti ufficiali.

Il film è incentrato sulla figura romanzata di uno di questi anziani: Fern (Frances Mcdormand), che dopo il crollo economico della sua città nel Nevada rurale, carica i bagagli nel suo furgone e si mette sulla strada alla ricerca di una vita al di fuori della società convenzionale. Il workcamping dall’esterno (e da certe inquadrature del film) può sembrare uno stile di vita alternativo in fondo vivace pur se eccentrico, una rielaborazione del mito dell’on the road americano con tutti i suoi archetipi: speranza e ribellione, frontiera e fuga, rifiuto del sogno borghese americano, solidarietà con gli altri sfortunati. C’è l’inevitabile sequela di albe e tramonti stagliati contro incredibili paesaggi, lucine e fiammelle colorate contro il buio che avanza, e c’è il rifiuto costante della protagonista, senza spiegazioni, di un tetto quando le viene offerto, in più occasioni, da amici e innamorati. Ci sono diverse chiavi di lettura a questa scelta, ovviamente, ma credo che possiamo essere tutti d’accordo che passi il messaggio che il suo non è un viaggio nella disperazione, ma una scelta consapevole in cui il percorso intrapreso si ammanta soprattutto di ritrovata libertà. Il film è tutto qui in fondo, nel suo andare avanti lungo la strada e le sue possibilità (non sempre infinite), un andare che è in fondo circolare per via dei vari incontri e luoghi che spesso si ripetono e periodicamente ritornano.

E’ un piccolo grande film poetico (forse iper-premiato), che ho molto apprezzato. Mi dispiace che si sia perso, in parte, il messaggio sociale del libro, che è molto più duro e triste: la maggior parte di questi nomadi sono più vecchi di Fern, più deboli, più sconfitti. Meno hollywoodiani, vogliamo dirlo? Non viaggiano perchè è bello ritrovare la propria libertà: vivono in furgoni perchè non hanno un’alternativa accettabile, lavorano in posti allucinanti (come Amazon, che nel film viene presentato come una specie di allegra palestra e nella realtà della descrizione della giornalista è più simile a 1984 di Orwell) camminando anche 25 km per notte a 70 anni perchè quel poco che tirano su gli è necessario per vivere. E tutti loro sanno – e spesso se lo dicono con pacatezza – che quando saranno troppo vecchi o malati per lavorare, si suicideranno. E’ molto molto sconfortante. E’ vero che molti di coloro che lo praticano sono temprati e hanno spirito d’avventura, non sembrano delle vittime. Ma la verità è che si adattano a un sistema che altrimenti li stritolerebbe, e si sottraggono alla povertà come possono, in genere lavorando come schiavi. Perchè nel libro non c’è la storia di Fern, ma quella di decine di persone (anziane) che lavorano perchè non possono fare altro: non è che girano l’America perchè sono nomadi pazzerelli o selvaggi dentro. Sono quasi ottantenni che hanno solo il loro furgone dove vivere, e se va bene 500 dollari al mese di pensione. Quindi lavorano, letteralmente, fino a schiattare.

Nomadland è un film molto bello, che consiglio. Se però volete la rabbia e la disperazione sociale, il precariato che toglie la dignità e il fallimento del Paese America, oltre che ai paesaggi e alle lucine, dovete leggere il libro.

Lorenza Inquisition

Traduttore: Giada Diano Editore: Edizioni Clichy Collana: Rive Gauche Anno edizione: 2020

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Le luci di Hollywood – Non si uccidono così anche i cavalli? – Horace McCoy

Via Po a Torino in semi-lockdown color arancione, bancarelle di libri usati coraggiosamente aperte, grande tristezza se non ci fossero almeno i libri. Mi fulmina da uno scaffale qualche dorso rilegato in tela grigia, inconfondibilmente Einaudi. Estraggo con cautela un volume de “I coralli”, antesignani degli Struzzi, è una prima edizione 1956 : “Le luci di Hollywood” di Horace McCoy, prezzo Lit. 1200. Lo porto via per la vergognosa cifra di 5 €. E’ una chicca, contiene due brevi romanzi e non posso fare a meno di condividere con voi qualche nota perché mi sono sembrati davvero tragicamente deliziosi nel far rivivere la “fabbrica delle stelle” così come me la immaginavo da ragazzo. Sono romanzi comunque disponibili in edizioni più moderne.

Il primo: “Avrei dovuto restare a casa” è quello che pensa Ralph Carston, al termine del libro di cui è il protagonista dopo la sua serie di disavventure hollywoodiane, vissuta assieme all’altra disillusa protagonista Mona. Lui della Georgia, lei dell’Oklahoma, arrivano nella mecca del cinema alla fine degli anni Trenta alla ricerca della ribalta e delle illusioni sparse a mani piene da tycoon, agenti delle dive e da tutto il demi-monde a la page che gira attorno ai neo-arricchiti dalla nuova fabbrica di star, ormai diventata, nel passaggio dal cinema muto al parlato, un’industria fiorentissima. L’autore scrive questo libro sulla base di una esperienza personale: viene dal Tennessee, diventa giornalista a Dallas e nel ’31, arriva a Los Angeles dopo la prima guerra mondiale in cerca di una scrittura da comparsa per tentare di diventare un attore vero. Non ci riuscirà, ma riuscirà a diventare un bravo scrittore. Anche per il suo alter-ego Ralph e le altre protagoniste del libro il percorso è molto più accidentato di quanto si aspettassero, Hollywood li triturerà, il sogno dorato si trasformerà presto in un incubo di compromessi degradanti, furti, prostituzione, suicidi. McCoy si conferma un maestro nel dipingere il fallimento e il senso di impotenza che attanagliano l’individuo quando tenta di resistere al meccanismo stritolante del capitalismo anni Trenta. La scrittura e i dialoghi di McCoy sono un poco datati ma le situazioni ambientali e le logiche di potere di quell’ambiente non sono poi così mutate e nel breve romanzo ci sono i toni di una sincera amarezza e la frustrazione che sembrano ancora tanto attuali.

Dal romanzo Non si uccidono così anche i cavalli? fu tratto un famoso film del 1969, diretto da Sydney Pollack, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 1970 e premiato con l’Oscar al miglior attore non protagonista a Gig Young. Nella California dei primi anni trenta, nel pieno della Grande depressione, è in voga un genere crudele di spettacolo, quello delle maratone di ballo, durante le quali coppie di disperati senza lavoro ballano per giorni interi, attratti, ancora prima che dal premio in denaro offerto a chi resisterà di più, dalla semplice possibilità d’avere almeno il vitto assicurato per qualche tempo. A uno di questi spettacoli, organizzato e presentato dall’ambiguo impresario Rocky in una sala da ballo sul molo di Santa Monica, partecipano Gloria Beatty e Robert Syverten, giovani, disoccupati e senza speranza. La gara è un massacro preannunciato, infarcito da colpi di teatro, gare di corsa, eventi inventati dagli organizzatori per richiamare pubblico assetato di emozioni forti. Insomma il Grande Fratello ante-litteram su una pista da ballo. Lei, originaria di Dallas e reduce da un tentato suicidio, strascica i piedi aggrappata al compagno pensando alla morte più che alla vita che verrà, lui forse ci crede pure alla vittoria. Si sa dall’inizio del romanzo che lui è condannato a morte per omicidio volontario ed il romanzo è costruito con una sorta di flash-forward che rende il racconto una immersione tragica da “cupio dissolvi” dei due protagonisti. Memorabile il romanzo e memorabile il film come testimonianza di quel tempo fatto di depressione e speranza (lo si può vedere gratuitamente in versione completa e doppiata su You Tube).

Renato Graziano

Sarei dovuto restare a casa

Traduttore: T. Albanese Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

Collana: Scrittori contemporanei Anno edizione: 2010 Formato: Tascabile

Non si uccidono così anche i cavalli?

Traduttore: Luca Conti Editore: Sur Collana: BigSur

Anno edizione: 2019