Tra me e il mondo – Ta-Nehisi Coates

Tra me e il mondo è una lettera che Ta-Nehisi Coates scrive al figlio Samori nel giorno del suo quindicesimo compleanno. Coates racconta la storia della sua infanzia nella parte sbagliata di Baltimora, della paura delle strade e delle gang, della scuola, della violenza, della polizia. Vincere questa paura, la paura di perdere il proprio corpo, diventerà lo scopo della sua vita. Per la prima volta la ricostruzione della storia americana riparte da zero; e riparte proprio da Ground Zero – dove ben prima del crollo delle torri gemelle c’era la sede del mercato degli schiavi della città di New York – per arrivare alle continue uccisioni ingiustificate di neri da parte della polizia, una violenza che diventa in questo racconto la storia universale del razzismo. Questo è un libro da cui nessuno uscirà indenne.

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Ho letto questo libro su consiglio di un collega. Non sapevo niente di Coates, che ho scoperto essere un rinomato giornalista nero americano, e niente del tema di cui tratta perchè mi è abbastanza alieno, molto poco di tutto il resto che lo corolla. È un saggio/lettera al figlio, Samori, nel suo quindicesimo compleanno. Il tema, in breve: il razzismo. Il tema non in breve: la ripetuta e costante cultura della discriminazione che in America continua nonostante la facciata di “non razzismo”.
È difficile da spiegare, ma è un libro toccante, duro, in cui l’autore racconta la sua infazia a Baltimora e tutta la sua evoluzione sempre tormentato dalle situazioni di paura e di discriminazione che viveva nonostante la segregazione sia finita da tempo, sulla carta. Racconta la paura di perdere il proprio corpo, di non avere potere su di esso perchè fin da bambino sai che chiunque può portartelo via, dal giorno in cui a 7 anni vide un ragazzino bianco puntargli una pistola in faccia per farsi figo, ed è impressionante la lista di crimini impuniti commessi dalla polizia su persone di colore. Racconta delle famiglie della sua epoca, che erano severissime coi figli e li picchiavano perchè “se non lo faccio io ci penserà la polizia”, diceva suo padre. La parola che più ricorre è corpo, e lo stra-potere che hanno “quelli che si credono bianchi” sul corpo nero.
Non sono mai stata in America, ho sentito da più voci che corre una sorta di paura laggiù nelle persone che in Europa è meno sentita, non prendo tutto per oro colato e quindi mi chiedo ancora come sia possibile che in America qualcuno possa morire per essersi rifiutato di abbassare lo stereo, come è successo a un adolescente di colore qualche anno fa, una delle tante morti inconcepibili. Può sembrare che Coates faccia del razzismo al contrario, tanto è duro a volte, ma alla fine si capisce che non è così, quello che chiede al figlio è di comprendere quelli che si credono bianchi, che vivono nel Sogno americano e di aiutarli a svegliarsi, questo è il compito che affida alla nuova generazione. Ne consiglio davvero la lettura, è veloce e lo stile è splendido, ma come scrive la quarta di copertina “nessuno ne uscirà indenne”.

“Non esistono razzisti in america, o almeno, quelli che hanno bisogno di essere bianchi non ne conoscono personalmente nemmeno uno. AL tempo dei linciaggi di massa era così difficile risalire ai singoli esecutori di quelle morti che spesso la stampa le dichiarava avvenute ‘per mano di ignoti’. Nel 1957, i residenti bianchi di Levittown, in Pennsylvania, lottarono per il diritto di preservare il regime di segregazione nella loro città. ‘In qualità di cittadini onesti, devoti e rispettosi della legge’ scriveva il comitato ‘riteniamo di non peccare di pregiudizio o discriminazione nel nostro desiderio di mantenere chiusa la nostra comunità’. Era il tentivo di commettere un atto vergognoso senza però incorrere in alcuna sanzione e te lo porto come esempio per farti capire che non è mai esistita un’età dell’oro in cui i malvagi facevano il loro mestiere sbandierandolo come tale.”

“Forse c’è stato, in qualche momento della storia, un grande potere la cui affermazione è stata esente dallo sfruttamento violento di altri corpi umani. Se c’è stato, io non l’ho ancora trovato. Ma la banalità della violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà. Non si può sostenere di essere supereroi e poi chiedere venia per i propri errori umani.”

Mi piacerebbe linkare qualche canzone di un rapper di quelli che cita Coates, come fa Carlo, ma non ne conosco. Rimedierò.

Selena Magni

Chimamanda Ngozi Adichie – Americanah

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Grazie a tutti quelli che l’hanno letto e hanno postato una recensione, perchè mi hanno incuriosito e così ho deciso di non rifiutare il prestito: questo libro l’ha scelto per me una collega che conosco appena, la quale non conosce nè questo blog nè i miei gusti lettari; per puro caso non ho detto: “no grazie, non ti conosco così bene per prendere in mano un tuo libro che potrei senza intenzione vandalizzare stropicciando pagine e copertina” e per puro caso lei ci ha trovato il libro giusto per me.
L’argomento di attualità che Chiamanda tratta con Americanah è la migrazione su scala globale: Ifemelu emigra negli Stati Uniti, poco convinta e senza aiuti economici di mamma e papà ( se non si conta una busta con qualche dollaro che il padre ha preso in prestito per lei) parte per riuscire a frequentare l’università, che nel suo paese per uno sciopero prolungato ha chiuso le porte ai suoi studenti. In America trova un conforto tiepido nella zia troppo presa dalla sua vita americana con ritmi frenetici, trova un’amica di scuola parzialmente americanizzata e un nipotino, Dike, che resterà uno degli uomini principali della sua vita. Ma quello che più significativamente trova in America è il razzismo: in America la vestono con una seconda pelle, che è la razza, qualcosa che in Nigeria non sapeva neanche di avere (a parte qualche riferimento tribale a Igbo e Yoruba). Alla razza dedicherà un blog che la renderà celebre in America, osservando, più che giudicando, i bianchi, i neri americani e gli ispanici con gli occhi di una nera non americana: una Evans Pritchard nigeriana. Quando tornerà in Nigeria cambierà pelle e non esisterà più il problema razza: anche per questo chiuderà il blog e comincerà da capo una nuova vita.

Però credo che il fulcro non sia nè la razza nè l’emigrazione: c’è un sottosuolo magmatico sotto le storie di emigrazione e razzismo e riguarda le relazioni amorose. Nel frontespizio Chimamanda dedica questo libro alla “nostra generazione futura”, ma è anche a quella attuale che si rivolge: a quella generazione che non ha un vocabolario per definire quegli eventi che invadono la nostra vita e a cui non sappiamo dare fino in fondo un significato.
Tre storie d’amore su tre diversi livelli di coinvolgimento: Obinze, l’amore adolescenziale che resta sospeso come un accordo per tutta la narrazione e la vita di Ifemelu. É una storia mai veramente conclusa ma trasposta come un motivo musicale in diversi momenti e con diverse prospettive. Poi c’è la storia con Chris, il wasp che rende completa la transizione di Ifemelu in Americanah; infine Blaine, il ragazzo afroamericano, ovvero l’amore idealizzato per l’America, l’americanità, Barack Obama è vattelappesca…Sentimenti confusi si alternano alla consapevolezza di un se’ che cambia in Ifemelu, sempre insoddisfatta e alla ricerca di qualcosa che non sa veramente neanche lei. La sua identità è in continua fluttuazione: è la ragazza semplice di ceto medio basso venuta dal villaggio a Lagos, poi è la ragazza ammessa alla scuola privata per figli dell’elite, poi è l’incredula vincitrice di una borsa di studio americana, poi assegnista di ricerca a Princeton, blogger e opinionista, redattrice, scrittrice, prostituta, fidanzata e amante. Ifemelu sembra non rimanere mai abbastanza in una maschera che subito se ne disfa. L’unico momento in cui si ferma e sosta in un’identità è nel finale, quando confusa e attonita fissa Obinze davanti alla porta: lo fissa e non capisco cosa voglia dire. Non voglio spoilerare niente ma davvero, quando alla fine trova una sua identità ( che il lettore la condivida o no) lei ancora si sottrae lasciando intendere che anche quando si raggiunge quello che si desidera forse non siamo più le stesse persone che l’hanno desiderato. Ha ragione Lorenza Inquisizia Maggi, non è un libro perfetto ma è un gran bel libro.

Stefano Lilliu