Hanno tutti ragione – Paolo Sorrentino #PaoloSorrentino #recensione

*Un libro che ti intimidisce

“Sono trent’anni che ogni mattina mi sveglio sempre con lo stesso oppressivo pensiero: – oggi mi verranno a prendere e trascorrerò tutto il resto della mia vita in prigione. Poi non succede mai. C’è qualcosa di più sinistro del carcere ed è vivere ogni giorno con la prospettiva realistica di andare a finirci dentro ogni giorno, più volte al giorno”.

Hanno tutti ragione è un romanzo di formazione della vita adulta, o della vita di quell’adulto che, credo, nessuno vorrebbe essere: Tony Pagoda, il protagonista. Quarantaquattro anni e illudersi di non sentirli ( una bugia raccontata a sè stesso perché tanto gli altri non ci cascano, e lo sa bene), Tony Pagoda, il cantante neomelodico-falsojazz-pienodisè-ossimorodissacrante-stereotipoitalianovivente esportato all’estero ad uso e consumo degli italiani espatriati: chi vorrebbe essere come lui?!

L’Italia è un paesello monotono. E il Medioevo mi ha rotto le palle. Le piazze tutte uguali, le vie tutte uguali e i portici di queste cittadine maledette, non li distingui l’uno dall’altro, ci passi sotto e non vedi cosa accade fuori. Ma cosa accade fuori? Probabilmente niente. […] Solo la mia città ha ancora un minimo di senso con quell’apertura alata a mare, sterminata. Ti dà la sensazione che se vuoi, puoi fuggire.

È un romanzo provocatorio perché nessuno vorrebbe immedesimarsi nelle vicende del protagonista e invece ci si cade dentro come Alice nella tana del bianconiglio. È la storia di chi a metà della sua vita si rende conto di non essere stato onesto con sè stesso, di non aver trovato il senso, o la bellezza ( non dimentichiamo che è pur sempre Paolo Sorrentino che scrive, e ce l’ha con la bellezza peggio di Sgarbi o Zecchi) che tanto cercava. Cercando di stare a galla per non soffocare fra i flutti di una vita scialba e coronata solo dalla celebrità (ma in fondo solo una celebrità di secondo ordine), Tony Pagoda viene pugnalato alle spalle dalla vita che dava per scontata: fine delle tournée estere e inizio delle perenigrazioni per la provincia italiana cronica; fine di un matrimonio cuscinetto e senza amore perché la moglie che tanto disprezzava vuole il divorzio e non sopporta più la sua mediocre piccola vita superficiale (l’accusa finale della moglie è proprio su quel “superficiale”).
“Ho bisogno di mia moglie ma non so perché. Forse perché quando entro in una casa vuota il magone mi acchiappa come l’edera rampicante attorno al mio corpo”.

Tony si sente addosso il senso di colpa per non aver trovato alcun significato nella propria vita e così, insonne, in una Napoli invernale e notturna, cammina per le strade malfamate e trovando l’illuminazione decide di concedere il divorzio alla moglie e di emigrare in Brasile, per cercare sè stesso in un “viaggio interiore” alla ricerca del RELAX. Ma in Brasile ci trova solo gli scarafaggi giganti e la verità su sè stesso verrà dispiegata e rivelata dall’ultimo dei criminali latitanti e accolti dai bassifondi delle amazzonie, Alberto Ratto. E così di nuovo e ancora dopo 20 anni di esilio Tony ritorna in Italia e ritrova la sua vecchia orchestra e il manager eroinomane e il suo maestro di vita, Mimmo Repetto, ormai centenario.

Sono sopravvissuto alle risse, alle sparatorie, ai divorzi, ad un omicidio, all’insonnia, agli schiaffi e alle genuflessioni. Sopravviverò anche a tutto il decadimento. Nel frattempo, devo solo tirare avanti un altro po’.

Si percepisce subito che Sorrentino è avanti rispetto a Marco Massiroli e al suo romanzo di formazione, Atti osceni in luogo privato: Sorrentino sembra aver già capito e risolto infanzia, adolescenza e età adulta, tutta una vita umana, tutta insieme. Un sacco di perle, una vera esplorazione del senso dell’esistenza umana ma buttata lì, con ironia, quasi non ci credesse nemmeno lui in quello che ha trovato nella sua esplorazione. A volte risulta insopportabile, forse perché usa uno spauracchio comune: l’uomo medio abbruttito, stereotipo italiano da disprezzare, come vessallo delle sue scoperte di senso. A volte invece è veramente veramente poetico, da mettere orecchie su orecchie alle pagine del libro e da consumare matite per sottolineare i passaggi più brillanti. Credo che la forza di questo romanzo risieda proprio nei sentimenti ambivalenti che suscita nel lettore: io personalmente lo avrei abbandonato a metà come ha fatto la nostra Daniela Quartu, se non fosse stato per Ambra Fontana che mi ha spronato a leggerlo e ad accettare fino in fondo la sfida che Sorrentino sbatte in faccia al lettore.

La ricerca infinita della giovinezza è un altro tema ricorrente nel libro: falso mito che si insegue tutta la vita per poi scoprire che lo spauracchio della vecchiaia in realtà è come un tuffo liberatorio in mare, dove le paure di invecchiare sono solo tigri di carta. E tutto per spostare un po’ più in là quel momento irreversibile in cui il giorno dopo non hai più progetti perché forse non c’è più il giorno dopo.
La verità sulle relazioni e suoi bluff che le tengono in vita, sulla gioventù affamata di sesso, sulla quantità di energie e speranze di senso che la gente ripone nel sesso: “…ma è solo adrenalina che pompa a tremila per sette minuti e ti accorgi che poi tutto precipita nel prima, un po’ peggio di prima visto che non hai più l’autonomia necessaria per ricominciare immediatamente la giostra”.

Insomma Sorrentino smaschera un po’ con ironia e un po’ con poesia tutte quelle illusioni che ci diciamo per vivere e per vivere bene: non lo fa con disfattismo o pessimismo, lo fa con una leggerezza un po’ irritante, ma solo perché è il modo che conosce per farci accettare il suo punto di vista. Scenografico e commovente il finale tanto quanto dissacrante e scostante l’inizio.

Stefano Lillium

So big – Una storia americana – Edna Ferber #sognoamericano #recensione

So big . Una storia americana – Edna Ferber

Traduttore: F. Cosi, A. Repossi
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Collana: Scrittori contemporanei
“Il suo bagaglio era fatto di gioventù, curiosità, una tempra forte come l’acciaio, un abito di stoffa marrone, uno di cachemire vinaccia, quattrocentonovantasette dollari e uno spirito allegro e avventuroso che non l’avrebbe mai abbandonata, anche se l’avrebbe condotta in posti strani e spesso, alla fine, l’avrebbe lasciata a un punto morto da cui dover poi tornare faticosamente sui propri passi. Per lei, però, i cavoli verdi e rossi sarebbero stati sempre giada e borgogna, calcedonio e porfido. La vita non ha armi contro una donna così”.

Scegli di leggere un vincitore di Pulitzer e ti aspetti sia un capolavoro o per lo meno un libro veramente bello.
Non sempre è così, almeno per il mio gusto o per quanto ne possa capire. Mi era successo col libro della Egan, mi è successo ora con So Big-una storia americana scritto da Edna Ferber nel 1924. Edna – nota, tra le altre cose, come autrice de Il Gigante, da cui fu tratto l’omonimo film con James Dean – ripercorre tre decenni di storia americana, reinterpretando attraverso la figura della sua protagonista il leggendario spirito dei pionieri e quei princìpi immortali che hanno fatto grande il suo Paese. E’ stata uno dei membri della Tavola rotonda dell’Algonquin,  sofisticato club letterario newyorkese composto da scrittori, giornalisti, critici, sceneggiatori, tra i quali spicca oggi il nome di Dorothy Parker.
Questo suo So big, intendiamoci, non è di certo un brutto libro, grandi caratterizzazioni, prosa fluida, stile impeccabile. Ma è troppo pieno di moralismi, con divisioni fra personaggi positivi e non, colpi di fortuna quasi inverosimili che arrivano sempre al momento opportuno, e si chiude nella seconda parte con una serie di capitoli difficoltosi e giri di trama che mi sono sembrati proprio tirati per i capelli.
Il personaggio principale è una ragazza, Selina, figlia di un giocatore d’azzardo, ben costruita, splendidamente descritta, viva, ironica, vitale, appassionata. I due conducono una vita agiata, finché il padre muore accidentalmente.
La giovane Selina si trova a dover provvedere a se stessa e dagli agi della città va a fare la maestra in campagna presso una comunità di contadini di origine olandese dove la mancanza di cultura impera.
Selina invece è colta, ha letto tanto, col padre andava a teatro, si immedesima nelle eroine della letteratura e vede la bellezza nella terra e nei suoi frutti.
Accolta nella comunità, viene conquistata da un contadino un po’ rozzo, privo di cultura, ma bello come può esserlo un giovane olandese.
Hanno un figlio, ma il marito muore prematuramente lasciando a Selina una casa malridotta e la terra da cui si ricava poco perché mal coltivata. La donna, con duro lavoro, fatica e abnegazione cresce un figlio, bonifica la terra e apporta migliorie alla casa. Il suo è un bel personaggio, una donna tutto sommato emancipata che conta sempre sulle proprie forze, e che invece di partire dal basso e raggiungere la vetta intraprende, suo malgrado, il cammino inverso. Ma come le ricorda un vecchio nel libro, non è possibile vivere la vita al posto di un altro, e per quanti sforzi Selina faccia, per quanta passione ella ci metta, non riesce a trasmettere a suo figlio l’amore per le cose semplici  e per la terra, e Dirk, fattosi uomo, col procedere delle pagine conquista il centro della scena, con la sua perenne indecisione, le ambigue relazioni sociali, e tutta la pochezza d’animo e la supponenza tipiche di chi non ha mai dovuto faticare per raggiungere alcun obiettivo. Cerc
herà la bellezza non nel colore dorato dei campi inondati dal sole, ma nella luce fredda e opaca del denaro, nel volto impersonale della finanza. 

“Sto in ufficio tutto il giorno e la sera vado sempre da qualche parte”
“E quando leggi, Dirk?”

Il libro contiene tutti i principi morali che hanno reso grande l’America, la solida concretezza delle donne, l’amore per la terra e il duro lavoro come autoaffermazione, l’esaltazione dell’ottimismo e della forza di volontà individuale, il riscatto di riuscire credendo solo in sè stessi, e la celebrazione di tutte quelle opportunità che il Grande Paese da sempre è capace di offrire a chi possiede uno spirito indomito, coraggioso e volitivo. La seconda parte ha come protagonista il figlio di Selina, ragazzo con pochi principi, sempre incerto e smaccatamente opportunista, che si lascia corrompere dal mito della ricchezza, e proprio in questa parte per me il libro si affloscia per chiudersi in maniera tronca, con il giovane che forse si rende conto di non aver fatto sacrifici e non aver apprezzato la bellezza delle cose semplici e i veri valori che invano sua madre ha provato a trasmettergli.

“Si sedette guardandosi le mani, quelle mani forti e senza un graffio. Di colpo e d’istinto pensò a un altro paio di mani, quelle di sua madre, con le nocche ingrossate, la pelle screpolata… espressive… con tutta la sua vita scritta sopra. Le cicatrici. Lei ne aveva.”

Raffaella Giatti