Stephen King – It #IT #StephenKing

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Difficile scrivere qualcosa su questo libro, che lessi almeno 20 anni fa, e che nel suo 40ennale ho deciso di riprendere in mano, questa volta in Inglese, giusto per dare un tocco di novità.
Ogni tanto mi viene voglia di rileggere libri che sono, nella mia memoria, nell’olimpo delle letture di cui non potrei fare senza, ma il più delle volte lascio perdere, nel timore che leggendoli dopo così tanto tempo potrebbero risultarmi meno “importanti” o addirittura non piacermi più. Con It non ho mai avuto questo dubbio, l’ho riaperto convinto di trovare dei vecchi amici, e così è stato.
I personaggi ti si siedono di fianco e ti tengono compagnia per tutte le mille e passa pagine, raccontandoti la loro vita, le loro paure, le loro fantasie e la loro crescita. E devo dire che è proprio questo l’aspetto che più mi affascina di questo libro, la capacità di King di descrivere quel periodo fondamentale della nostra vita che è l’inizio dell’adolescenza, quando si avverte che le cose iniziano a cambiare, ma non si capisce ancora come, o perché. Quando inizi a sentire qualcosa di strano quando l’amica che fino a qualche tempo prima giocava con te a cowboy e indiani indossa un nuovo paio di pantaloni, o una gonna un po’ più corta, quando capisci che i tuoi genitori stanno parlando di qualcosa che è ancora anni luce da te, ma di cui inizi ad avvertire la presenza inquietante all’orizzonte, quando ti verrebbe da strangolare chiunque ti chiami ancora “bambino”, ma ti vedi ancora enormemente diverso da chi ha solo un paio d’anni più di te.
Ecco, probabilmente, rispetto alla prima lettura, questa volta sono stati questi gli aspetti che mi hanno più portato via, più che la vicenda in sé. E’ stato il (ri)vivere la nascita dell’amicizia dei “perdenti”, la naturalezza del loro raccontarsi qualsiasi cosa, la loro consapevolezza dell’abisso incolmabile tra il loro mondo e quello dei genitori, il loro stupore nello scoprirsi innamorati, e soprattutto la loro fiducia incrollabile in un mondo dove anche i mostri possono esistere e possono essere sconfitti.
Poi si cresce, e i particolari di quello che ti è successo quando avevi quell’età non li ricordi più, non li ricorda più nemmeno quel tuo amico che è sempre stato in contatto con tutti. Magari hai cambiato città, perché qualcuno ha deciso per te che dovessi cambiare vita e amicizie, e che dovessi abituarti all’idea che i mostri esistono davvero, ma hanno altri nomi, e non c’è modo di sconfiggerli.
Per tua fortuna i tuoi 12 anni te li tieni stretti, e ogni tanto ci provi a riguardare il mondo con quegli occhi, per trovare la fede e la fantasia necessarie per sconfiggere i mostri che ti stanno intorno.
E in questo un libro così può tornare utile.

PS: avvertenza per chi, leggendo queste righe e non sapendo nient’altro del romanzo (non credo sia possibile), decidesse di leggerlo. I mostri esistono eccome, e fanno paura.

PPS: you can’t be careful on a skateboard.

Luca Bacchetti

Dorothea Lange – The Great Depression #DorotheaLange #Fotografia

Per la sfida alla voce “Un libro fotografico” ho scelto, complice anche la recente rilettura de La Valle Dell’Eden, una raccolta di Dorothea Lange sulla Grande Depressione.

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La Lange si era stabilita a San Francisco, dove aveva cominciato a documentare con grande continuità le condizioni dei senza tetto e le file dei disoccupati nella città.
Nascevano i primi reportage documentaristici, la fotografia entrava in un nuova epoca: il fotogiornalismo. Ci si accorgeva dell’importanza che i Reportage potevano avere nei confronti delle grandi questioni sociali, non solo da un punto di vista storico. Si cominciava a capire che l’impatto emotivo di una serie di fotografie sul pubblico lo obbligava a reagire, a prendere una posizione morale ma anche pratica di fronte a quello che stava accadendo: in altre parole, la fotografia diventava uno strumento politico di straordinaria efficacia.

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La Lange, insieme ad altri grandissimi nomi della fotografia, collaborò intensamente a questo sviluppo, ritraendo contadini e lavoratori migranti che a causa della crisi in Borsa del 1929 e dei disastri ecologici del Dust Bowl, dopo aver perso le case per i debiti e i terreni per la siccità, abbandonavano le Grandi Pianure e si riversavano a centinaia di migliaia sulla California, con le sue terre ancora fertili. Erano migranti americani in America, si spostavano su carri e macchine se avevano avuto la fortuna di mantenerle, altrimenti a piedi, tutti, padre, madre e bambini, a volte qualche nonno, vestiti di stracci, affamati, disperati. Seguivano il lavoro stagionale delle colture, si accampavano in squallidi agglomerati di casupole di cartone e legna, e qualche tenda.

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La foto icona della Lange, e anche di questo intero periodo storico, è l’immagine della Migrant Mother, misera raccoglitrice di piselli in California, al secolo Florence Owens Thompson. Celebre suo malgrado, perché la Lange non chiese mai il suo nome, né la sua storia, e per quarant’anni quel volto stanco e scavato dalla miseria fu solo una «donna di trentadue anni, madre di sette figli, raccoglitrice di piselli». Addirittura in realtà quella foto non avrebbe dovuto esser venduta, né pubblicata, perché di proprietà del governo e quindi di pubblico dominio; e invece gli scatti della Lange furono inviati al San Francisco News e immediatamente dati alle stampe, senza fruttare alcuna royalty alla fotografa, ma garantendole la fama imperitura. D’altronde l’effetto di quelle foto, accostato a titoli provocatori dei principali giornali dell’epoca (Cenciosi, affamati, falliti: i raccoglitori vivono nello squallore, o Cosa significa New Deal per questa madre e i suoi bambini?) fu immediato. Al campo arrivarono generi alimentari e vestiti, dottori e medicinali: la Migrant Mother aveva cominciato a manifestare il suo potere comunicativo.

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Nonostante sia un libro fotografico per cui in effetti non c’è quasi niente da leggere, ci ho impiegato quasi una settimana a finirlo perchè quelle foto sono drammatiche, mi mettevano addosso una certa angoscia; soprattutto i nonni, i vecchi, non riesco proprio a reggerli, nel loro essere indifesi di fronte al destino bastardo dopo che hai già dato per una vita. Nei bambini invece a volte c’è una speranza, un accenno di sorriso, una luce negli occhi che ancora non si è spenta. Non in tutti però: ci sono foto di alcuni ragazzini più grandi per i quali non ho trovato definizione migliore di questa frase di Bruce: ti guardano con gli occhi di una persona che odia per il solo fatto di essere nata.

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Lorenza Inquisition