Moby Dick – Herman Melville #MobyDick #HermanMelville

Giacché tutti gli uomini di tragica grandezza diventano tali per un che di morboso.

Giunta alla bellabella (insomma) età di 48 anni ho letto Moby Dick che, esattamente in tema, stava diventando per me il Leviatano di tutti i libri non letti, dei Classici non ancora affrontati che mi guardano con riprovazione dallo scaffale. Onestamente, non credo che sia possibile dire qualcosa di nuovo su Moby Dick; nemmeno le infinite scimmie del Teorema dei primati instancabili alla macchina da scrivere penso avrebbero mai possibilità, neanche in diecimila anni, di scrivere una sola cosa che non sia stata già detta su questo libro: e così mi limiterò a qualche pensiero sparso, sicuramente non originale, ma sentito, che ancora a un mese dalla lettura mi sorge ogni tanto. Perchè sì, Moby Dick è un libro che rimane dentro, non se ne sfugge; non se ne sfugge nemmeno evitandolo, in realtà, perchè nella cultura occidentale è uno dei testi più citati di sempre.

La ragione per cui l’ho scansato per tutti questi anni era più che altro un pregiudizio: leggendone ovunque e sentendolo menzionare in ogni discussione di letteratura anglo americana, mi ero fatta l’idea che fosse due cose: un mattone innanzitutto, ma soprattutto (e peggio) un mattone incomprensibile. Io ho letto molti classici, e il discorso pesantezza lo trovo relativo, e non mi spaventa, generalmente. E’ ovvio che se affronti un tomo dell’Ottocento di 600 pagine non puoi pensare che sia una passeggiata, e in sostanza devi proprio volerlo leggere. Sono testi che richiedono attenzione, impegno, forse un po’ di sano masochismo; e poi ovviamente c’è il fattore gusto soggettivo, e personalmente leggere un volume esteso e vetusto non mi dispiace, se parto concentrata, e se non è proprio insopportabilmente cattedratico. Ma in ogni caso, penso che la letteratura non dovrebbe essere un’ulteriore via di scampo all’esercizio del pensiero intensivo; mi pare che nella nostra vita ci siano già abbastanza distrazioni e scuse per distoglierci dalla meditazione e della speculazione. A questo servono i classici: a far pensare. E per questo funzionano, anche a secoli dalla pubblicazione: ogni paragrafo è una sfida, meravigliosa, e a volte devastante.

Perciò non mi è pesato leggere Moby Dick, anche se sì, ovviamente, è un mattone. Ma è un testo che fa pensare, che trascina in riflessioni anche spiazzanti nella loro modernità per essere un testo scritto nel 1851, che invita a sottolineare frasi su frasi per tornarci sopra in un secondo momento, e soprattutto, è un libro sorprendentemente diretto e, per certi versi, semplice: il linguaggio non è cervellotico, la filosofia è lineare, le metafore mai particolarmente contorte. Certo non è un libro facile, e non è un romanzo di evasione, anche se contiene pagine di potente avventura, impressionanti per la qualità della scrittura e l’intensità della trama.

Moby Dick è un lavoro complesso che, ancor di più in un’epoca in cui le risposte a tutto si trovano in fretta, in poche righe, in un click, a volte ti fa tribolare nel capire un paragrafo, una frase, un intero capitolo: e spesso le idee che ti vengono leggendo, te le devi guadagnare sudando. E’ impegnativo, nella forma e nel contenuto, la storia a volte secondaria ai temi che vuole sviluppare, eterni, immutabili, profondi: la natura della vita e della morte, il senso dell’identità personale e della religione, l’inevitabile e fatale sfida dell’Uomo al Destino, il rifiuto di qualche uomo di sottomettersi a un’autorià che regna superiore, algida, mai manifesta.

Deviarmi? La via del mio fermo proposito è segnata da rotaie di ferro per correre sulle quali il mio spirito è scanalato. Su precipizi senza fondo, attraverso i cuori infestati delle montagne, sotto i letti dei torrenti, io mi precipito infallibilmente. Nessun ostacolo c’è, nessun gomito su questa mia strada di ferro.

Prima di leggere il romanzo, ho voluto leggere solo una breve recensione di un amico scrittore, Stefano Solventi, e mi sono portata dietro questa riflessione che ho trovato particolarmente corretta: “Dirò che leggendolo per la prima volta a 46 anni, nel 2016, avendone subito fin da bambino la suggestione riflessa nell’immaginario collettivo, ho provato stupore, molto stupore. Perché è un romanzo che per larga parte è meta-romanzo, modernissimo anzi post-moderno, con tutte le sue digressioni storiche, tecniche, anedottiche, non gratuite né accessorie ma consapevoli (consapevoli fino all’ironia) della possibilità di raccontare una vera e propria dimensione culturale sfruttando tutte le armi della letteratura, modulando notazione e narrazione.”

Questo mi ha aiutato alla prima sorpresa e al primo potenziale ostacolo, quando dopo i primi capitoli che partono leggeri, quasi ingannevoli nella loro semplicità di storia che declina un’avventura marinaresca, nei quali ti adagi aspettandoti il piacevole -pur se epico- racconto della pazza impresa di un capitano senza una gamba che insegue una balena bianca, Melville piazza all’improvviso lo sbarramento, buttandoti nel mezzo del mondo della caccia al capodoglio, espandendone accezione e significato all’intera portata dell’esistenza umana.

Moby Dick è stato un viaggio epico, difficile, che ti consuma: qualsiasi cosa ti aspetti aprendolo la prima volta, capirai quasi subito che hai per le mani molto di più di quello che pensavi, forse troppo, di più. Ha passaggi profetici e altri enciclopedici, citazioni bibliche e filosofiche, una storia epica ed evangelica, brutale e cupa, che paradossalmente porta a invocare la fede, anche solo nella propria umanità. E’ uno di quei libri che tracciano il solco tra la sproporzione di quello che abbiamo letto e vissuto fino a queste prime pagine, e ciò che sarà da ora in poi. Pur avendoci faticato sopra quasi a ogni capitolo, ho impiegato tre giorni soli a leggerlo, perchè, semplicemente, non potevo staccarmene e vivevo con fastidio qualsiasi interruzione, famiglia, amanti, telefono, cibo, serie tv (effetto Stephen King, o Game of thrones, per evadere nel pop), e una volta finitolo mi mancava così tanto quel mondo che ho subito comprato due graphic novel, per rimanere ancora un po’ sul Pequod. E la cosa assurda è che pur essendo storie graficamente meravigliose (in particolare quella di Chabouté) e concentrate, inevitabilmente, quasi del tutto sulla mera trama, non mi soddisfavano perchè mi mancava il resto del libro: il testo, le parole, la scrittura del romanzo. Cioè mi mancava il mattone.

Bè, questo è stato Moby Dick, per me; ed è un libro che mi è rimasto, e che rileggerò, magari rivisitandolo solo a pezzi, ripercorrendo qualche pagina al di fuori dell’ordine e del contesto, tornando sulle decine e decine di sottolineature che ho sentito di dover fare. D’altronde, i grandi libri servono a questo: ad andare avanti, una frase alla volta.

Il giro del mondo! In questa frase c’è di che ispirare orgogliosi sensi; ma dove mai conduce tutta questa circumnavigazione? Attraverso pericoli innumerevoli, solamente allo stesso punto dal quale siamo partiti, dove coloro che ci siamo lasciati dietro, al sicuro, sono sempre stati davanti a noi.
Se questo mondo fosse una pianura senza fine, e navigando a est potessimo raggiungere sempre nuove lontananze e scoprire visioni più dolci e strane di tutte le Cicladi o le Isole del Re Salomone, allora sì che il viaggio prometterebbe qualcosa. Ma inseguendo quei misteri che popolano i nostri sogni, o torturandoci a dar la caccia a quello spettro diabolico che prima o poi nuota innanzi a tutti i cuori umani; andando così a caccia intorno a questo globo, queste cose o ci trascinano in sterili labirinti o ci lasciano, sommersi, a mezza strada.

Lorenza Inquisition

Pubblicità

Melancolia della resistenza – László Kraznahorkai

“Aveva visto miliardi di cose inquiete, pronte al cambiamento continuo, aveva visto come dialogavano tra loro severamente senza capo né coda, ognuna per conto proprio; miliardi di relazioni, miliardi di storie, miliardi, ma si riducevano continuamente a una sola, che conteneva tutte le altre: la lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza”.

 

 

L‘arrivo in piena notte di un circo che esibisce il corpo di una gigantesca balena diffonde un’ondata di gelo e di timori tra gli abitanti di una cittadina ungherese scossa da una catena di funesti accadimenti. Una schiera di misteriose figure sta per mettere a ferro e fuoco la città terrorizzata che rischia di sottomettersi a un grottesco Movimento per la Pulizia e l’Ordine. Su questo scenario si staglia una galleria di personaggi indimenticabili: la crudele signora Eszter, che architetta la sua avida scalata al potere e Valuska, eroe sfortunato con la testa fra le nuvole, la sola anima pura che si aggiri tra queste pagine. A questa situazione di catastrofe incombente László Krasznahorkai contrappone una macchina narrativa di stupefacente bellezza e profondità, una rappresentazione dell’apocalisse fondata sulla sproporzione e sull’allegoria, una scrittura infallibile che trascina il lettore in un vortice ammaliante.

Un capolavoro. Lo sospettavo. Nella grandiosa tradizione mitteleuropea del grottesco. Come Hrabal, Schultz e Gunter Grass, per certi versi. Romanzo metafora, la trama è quella di inquietanti accadimenti in una piccola cittadina ungherese all’arrivo di uno strano circo che ha in una puzzolente balena imbalsamata, simbolo di un potere sommerso e nascosto, ,a sua principale attrazione che prelude a una inquietante apocalisse annunciata. Piazze, strade, luoghi, una geografia definita da inconfondibili toponimi ungheresi che servono all’autore per tratteggiare la mappa di una città insieme reale ed inesistente, un luogo che è nessun luogo. Un pianista che non si alza dal letto e il suo fedele amico astronomo e zimbello del paese. Nella quotidianità monotona del villaggio, preceduto da una scia di eventi inspiegabili e sinistri, la compagnia di girovaghi sarà seguita da avvenimenti peggiori, che sconvolgeranno per giorni la vita del paese, fino alla costituzione di un nuovo ordine dittatoriale, travestito da un rinnovamento costruito sul sangue e la forza. Le strade sono per qualche ragione coperte da spazzatura ghiacciata. Vi è un senso di alienazione a tratti soffocante. La catastrofe non è mai un evento singolo. Si preannuncia subdola in piccoli episodi isolati, nell’atmosfera che diventa sempre più densa e cupa anche se le cause rimangono oscure. Pochi e destinati al fallimento, i protagonisti combattono con la forza dello stupore e dell’arte la confusione che la balena sprigiona attorno a loro. Ma la melancolia sta proprio nel loro destino di vinti senza lotta, in una resistenza le cui fondamenta vengono minate da un potere malvagio, istituzionalizzato. Il romanzo, pubblicato nel 1989, fa così riferimento al passato comunista dell’Ungheria, che si apprestava in quegli anni ad uscire dal Patto di Varsavia, lasciandosi alle spalle le vittime della rivoluzione tentata anni prima. Il testo, denso di allusione e metafore,è anche un discorso politico che mira a condannare tutte le forme di totalitarismo e un sudbolo ma ben mirato meccanismo di imporre paura e obbedienza.

«Sembrava che perfino l’aria fosse cambiata, nelle sue eterne composizioni […], come se il principio sconosciuto che manda avanti il mondo all’improvviso fosse rimasto senza forze».

La prosa è pazzesca: splendida, magnetica. Ipnotica. Bellissimo.

Pier