Simone Moro è un alpinista d’alta quota. In questo libro, il primo che scrive, vuole raccontare la spedizione sull’Annapurna del 1997 che è costata la vita ai suoi due compagni di cordata e che lo ha visto miracolosamente sopravvissuto alla valanga che ha ucciso gli altri e che lo ha fatto precipitare per 800 metri. E così parte dalla sua infanzia e cerca di spiegare come mai ha fatto della montagna il suo mestiere, perché scalare è la sua vita e che cosa significa per lui raggiungere la vetta. Ci racconta le sue esperienze, le sue paure, i suoi dubbi e la grande, indimenticabile amicizia con Anatolij Bukreev, il grande alpinista kazako morto sull’Annapurna. Perché erano lì in pieno inverno? Come mai avevano deciso di affrontare quella parete in una stagione così ostile? Quale era il loro obiettivo? Simone racconta, descrive, spiega. Ci fa sentire il freddo e la stanchezza e poi la solitudine e la disperazione della sua discesa dopo la valanga, con le mani ferite e inutilizzabili, i tendini recisi, e la sensazione di non farcela. Ma il vero dolore Simone lo prova quando non può più sperare nella salvezza dei suoi due compagni. Il suo racconto è però un inno alla montagna e a quell’amico che sarà sempre vivo nel suo cuore.
All’improvviso, è arrivato qualcosa di completamente nuovo nella mia esperienza di lettore. Dopo aver letto il saggio di Byung Chul-Han, “La società senza dolore” cercavo qualcosa di estremo che mi aiutasse a filettare le pieghe dei concetti del filosofo coreano. Tra i tanti consigli ricevuti su libri di scalate mi ha incuriosito più di altri la storia di un’altra spedizione, sul Nanga Parbat, di un altro alpinista italiano, Daniele Nardi, finita nel peggiore dei modi. Documentandomi su questa vicenda ho “incontrato” tra le tante informazioni, un’ intervista a Simone Moro che dava la sua opinione sui fatti. Mi sono innamorato. È stato amore a prima vista tra me e questo cinquantenne bergamasco che parlava e trasmetteva con tanta enfasi le sue emozioni al mio impianto sinaptico. Erano anni, almeno 10, da quando scoprii Paul Auster, che non mi capitava di innamorarmi (da un punto di vista intellettuale) di qualcuno in questo modo, di qualcuno che non fa neanche lo scrittore. Fulminato.
Considerando poi che negli anni ho sviluppato una forma piuttosto grave di Kenofobia, doveva esserci qualcosa che non vedevo ma che mi ha portato a lui. Platone lo chiamava Daimon, io so romano e lo chiamo MECOJONI. Ma veniamo al libro: non voglio dire molto perché raccontando il reportage non posso evitare di spoilerare informazioni che non è giusto che vengano riportate qua, ma possiamo dire (io e la scimmietta che ho nella testa) che questo è un libro bellissimo. È bellissimo per una serie di ragioni che non hanno niente a che vedere la bellezza dei romanzi contemporanei, anche perché non è un romanzo, è un reportage.
È la storia della spedizione sull’Annapurna (e altre storie che hanno il fine di preparare il lettore alle notizie della successiva impresa) di uno dei più bravi alpinisti del mondo. Ed è lui stesso a raccontarcela e a scriverla. Simone Moro non è Nabokov, non ha talento letterario nè una prosa avvincente come Stephen King, ma ha una cosa che probabilmente manca a molti degli scrittori contemporanei, ha passione, e la passione che ha, conseguenza del suo “lavoro” di alpinista, si respira in ogni pagina di questo breve ma ricchissimo reportage. La passione si sente quando parla di amicizia, quando racconta la montagna, quando descrive le sue emozioni, in maniera semplice ma immediata c’è ancora di più quando parla della perdita…
Mi sono rotto le balle di scrivere, potrei andare avanti 16 ore ma si sta freddando l’acqua nella vasca ed io, non essendo acclimatato alle temperature dell’Annapurna rischio di morire di freddo. Leggete questo reportage bellissimo solo per il piacere di leggere una bella storia in cui c’è tutto quello di cui ha bisogno un uomo per sopravvivere.
From the Monongahela valley to the Mesabi iron range To the coal mines of Appalachia, the story’s always the same Seven hundred tons of metal a day, now sir you tell me the world’s changed Once I made you rich enough, rich enough to forget my name.
Bruce Springsteen, Youngstown
Hillbilly Elegy, tradotto (secondo me non benissimo) in italiano con Elegia Americana, è un libro memoir del 2016, in cui l’autore racconta la storia sua e della sua famiglia, montanari (hillbilly, appunto), rozzi sdentati redneck del Kentucky, poveracci i cui antenati non scesero dal Mayflower per divenire parte della classe bianca WASP in perenne ascensione in America. Questi sono i miserabili, i cui avi si spezzavano la schiena come mezzadri degli schiavisti del Sud, minatori di carbone, macchinisti e operai nelle acciaierie, tutti lavori perennemente sottopagati, che con il tempo sono poi scomparsi, o in via di esaurimento. Sono il white trash, la spazzatura bianca, che sta proprio di fianco a quella ispanica e a quell’altra di colore.
Quando il libro è uscito in America, citato da Oprah Winfrey e Hillary Clinton, è stato catapultato piuttosto sorprendemente in cima alle classifiche dei best seller perchè, nell’ascesa di Donald Trump, è stato visto dai liberali americani come una sorta di stele di Rosetta per decifrare una specie misteriosa e fino a quel momento tutto sommato innocua (e quindi trascurata) dell’elettorato americano: il bianco povero della classe operaia che vive nella regione degli Appalachi e del Midwest, che alle elezioni del 2016 è stato decisivo per la vittoria di Donald Trump alle presidenziali.
Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari.
L’autore intreccia la propria storia personale con quella della sua famiglia, in un arco narrativo che è un classico racconto americano: i suoi nonni emigrano dopo la Seconda Guerra Mondiale dal Kentucky all’Ohio, in cerca di una vita migliore che, per certi versi, trovano. Lavorando sempre, tanto e con onestà, riescono a conquistare quei beni di conforto basilari (la casa, la macchina) che identificano in qualche modo il fantomatico ceto della middle class. Come in ogni storia di emigrante, i nonni hanno portato con sè dalla terra di origine i propri valori e convinzioni: qualche cosa era molto bella e positiva, per esempio la lealtà verso la famiglia e l’amore per il proprio Paese. Qualche altro aspetto era estremamente sbagliato, come una certa tendenza alla violenza (in casa e fuori), all’abuso verbale, al rifugiarsi nell’alcool; da questo matrimonio burrascoso uscirono figli e figlie con vari stadi di nevrosi e dipendenze; in particolare una di loro, la mamma dell’autore, risultò un esempio di instabilità e isteria, violenta, inconcludente, drogata fin da giovanissima, sessualmente promiscua (interminabile la sfilza di mariti e patrigni descritti nel libro). L’autore, nonostante questo background preoccupante e poco incoraggiante, riuscirà a uscirne: allevato dalla mitica nonna, vero baluardo di questa disastrata famiglia, studierà, si arruolerà nei Marines, si laureerà addirittura a Yale, e lascerà definitivamente dietro di sè le origini di spazzatura bianca.
Quindi, un libro importante, per storia e significato. Mi è piaciuto? no. Lo consiglio? meh.
Innanzitutto, per me J. D. Vance non è un gran narratore: in una storia famigliare di così grande respiro, i nonni, gli zii e le zie, vari e diversi personaggi con tutta una serie di caratteri e voci da far udire, non riescono mai a uscire dalla pagina, descritti poco e male, un triste piattume di scrittura che è francamente sconfortante, viste le premesse. Penso che sarebbe stato bello conoscere meglio e senza prolissità queste persone, ma non ci è dato farlo per evidenti limiti di talento.
Poi. In questa storia, l’unico a uscire vincitore è l’autore; tutta la famiglia, per una serie di diverse circostanze, è impantanata e affossata da quelle che sono le piaghe endemiche di questa classe sociale americana: abbandono scolastico da giovani e giovanissimi, dipendenze da droghe e alcolismo, violenza domestica, matrimoni e divorzi senza soluzione di continuità nell’arco di pochi anni, affidamenti di minori disagiati vissuti come cose ordinarie, indebitamento eccessivo, delinquenza diffusa, familiarità con il carcere. La questione che sorge spontanea in America è quanto sia responsabile di tutto questo lo Stato, e quanto sia invece colpa essenzialmente di queste stesse persone se sono così tanto hillbilly dentro da non avere la forza morale di elevarsi al di sopra delle difficoltà. Per i democratici, in generale, la povertà è un problema (anche) strutturale: per riuscire ad avere una vita dignitosa devi avere la possibilità di curarti se sei malato, scuole decenti con programmi di refettorio e recupero aperte a tutti, non solo a chi paga di più, riabilitazione e non il carcere se hai un problema di assuefazione o una malattia mentale, e in tutto questo se non hai soldi di tuo deve entrare in campo il governo e aiutarti.
J. D. Vance è un repubblicano, e si vede nel momento in cui la sua risposta sta nell’opzione: chi lavora di più, ce la fa. Chi ha la fortuna di avere almeno un familiare onesto e lavoratore (in questo caso, la nonna) che gli fa da scudo, deve solo impegnarsi, e il sogno americano si avvererà, perchè, per questo tipo di America, se non sei ricco è solo colpa tua, in fondo. Arrivando da un libro come Nomadland, dove vedi dei vecchietti di settant’anni che hanno lavorato una vita dover continuare a lavorare perchè non hanno altra prospettiva, questo per me è l’altro grande problema di Elegia Americana: una grande generalizzazione in cui si deresponsabilizza una parte importante del disagio sociale americano giustificando le avversità di questo ceto di poveri con la motivazione che in fondo se ci sei nato, non vuol dire che ci devi rimanere, puoi tirartene fuori, come tanti hanno fatto. E’ vero, non ci sono risposte facili, e credo che Vance non abbia torto quando parla di come molti indigenti della sua città di origine rimangano tali perchè sono nati in una tale disperazione che non hanno mai neanche provato a pensare di poterne uscire. E le sue descrizioni, anche se imperfette, aprono comunque finestre sui suoi amici e parenti, e su quello che pensano davvero: che i media mentano, che i politici mentano, che le Università siano inaccessibili perchè corrotte e comunque favorevoli ai ricconi, e che i militari, che loro idolatrano, stiano combattendo guerre inutili; e allora, perchè provare a ribellarsi, se il sistema è contro dall’inizio?
La terza e ultima critica che mi sento di dover fare al libro di Vance che ci spiega le vite degli Hillbilly, le sfide che devono affrontare, e il perchè votano come votano, è la sua totale e gravissima mancanza di consapevolezza del problema del razzismo che pervade il ceto medio basso americano. Ovviamente è un problema che mina tutta la società americana, a ogni livello. Ma qui si parla del perchè i redneck hanno votato Trump con così grande soddisfazione ed entusiasmo, e uno dei motivi basilari è che sono dei razzisti del cazzo; non lo si può ignorare, o sottovalutare, e la ragione per cui il successo di Trump è stato così spettacolare nelle regioni degli Appalachi è perchè i suprematisti bianchi avrebbero fatto qualunque cosa dopo otto anni di un ne*ro come presidente pur di avere un altro bianco al potere (e lasciamo pure perdere che contro Trump correva UNA DONNA addirittura). Non è una coincidenza che i cosiddetti bastioni del trumpismo siano tutti in predominanza bianchi, e non è una novità sapere che Trump ha cavalcato con grande entusiasmo l’ondata di xenofobia in quei distretti. Ma questo aspetto è del tutto assente nel resoconto di Elegia Americana.
Ora, in fondo J.D. Vance non è un fine sociologo, o un rinomato storico: è solo un avvocato di Yale che ha scelto di raccontare la sua storia e quella della sua famiglia, e i liberali Americani hanno poi deciso che il suo libro e le sue (per me) eccessive semplificazioni erano tracce precise e illuminanti per spiegare la devastazione degli Stati Uniti post recessione del 2008. A me non sembra che questo libro basti per capire perchè un’intera generazione di statunitensi sia stata abbandonata a sè stessa, nè come sia possibile far fronte a questa implosione di un’idea sociale che è praticamente defunta, ma se Elegia americana ha aiutato i suoi lettori americani a riflettere sul tipo di problemi che li hanno portati a quattro anni di Trump, allora fermo il giudizio. Non è un libro orribile e l’autore parla con affetto della sua Terra e della sua gente, ed è certamente un punto di partenza per riflettere sulla fine di un sogno che è stato anche nostro, per molto tempo.
PS. Segnalo che ne hanno tratto un film per Netflix, diretto da Ron Howard, con Glenn Close e Amy Adams. Pur con queste premesse qualitative, le recensioni sono pessime.